Meridiani di sangue: Killers of the Flower Moon
Non è la prima volta che il cinema recente di Martin Scorsese si confronta con le cicatrici sopportate dai nativi americani nella storia americana: c’è una scena in particolare del suo ultimo documentario diretto e poi distribuito per Netflix nel 2019, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story. Ad un certo punto di quella grande opera non ancora troppo dibattuta la band di Dylan si esibisce con The Ballad of Ira Hayes nella riserva di Tuscadora nello stato di New York. L’ex marine Ira Hayes è il protagonista di una famosa ballata che narra le sue gesta dietro allo scatto della celebre fotografia Raising the flag on Iwo Jima, come racconta anche il celebre film di Clint Eastwood nel 2005. Ira Hayes fu un eroe di guerra che, come molti eroi, rimase vittima di stress post-traumatico: la sua celebrità svanì presto, bruciata dall’alcolismo che gli rubò la vita quando era ancora giovane, una vita sopravvissuta all’orrore bellico e poi tramandata oralmente nel canzoniere americano del dopoguerra.
Ira Hayes è stato soprattutto uno dei tanti reduci americani, come lo fu Travis Bickle in Taxi Driver, come lo è questa volta Leonardo DiCaprio nei panni di Ernest Burkhart in Killers of the Flower Moon: l’esperienza nella prima guerra mondiale non sembra però alimentare particolari angosce in Ernest, almeno inizialmente. Di ritorno in America verso la Osage County in Oklahoma, terra tanto ricca di petrolio che la comunità dei nativi Osage potè beneficiarne economicamente grazie alle concessioni della nascente industria petrolifera, Ernest viene accolto al suo ritorno dal vecchio zio William Hale, Robert De Niro, che lo reintegra felicemente come, guardacaso, taxista nella fiorente economia di questa benestante società. Ernest si innamora subito di una delle ricche sorelle Osage, Mollie Brown/Lily Gladstone, fino a giurarle presto una fedeltà coniugale dietro alla quale si celano i macchiavellici piani dello zio “benefattore” detto “Il Re”, finché una serie di misfatti non incominciano ad attirare sospetti sulle ricorrenti morti che colpiscono la comunità nativa, tra cui le sorelle di Mollie, tutte sposate con uomini caucasici. Un “bicchierino” di wiskey è la sbrigativa prescrizione dei medici bianchi alla “malinconia” dei nativi; il deperimento cronico è solo una sfortuna del fato che si porta via le sorelle sposate con i “bianchi” uomini d’affari della contea. Semplice sfortuna o una vera e propria epidemia?
Martin Scorsese scoperchia subito le carte in tavola: non ci vuole molto per accorgersi chi sia il villain che tiene in pugno gli interessi economici della città e delle vite dei cittadini. William Hale è la maschera con cui De Niro risveglia il suo goodfella irlandese degli anni Ottanta, ora reincarnatosi indietro nel tempo come un vero e proprio Al Capone del midwest (e non manca una divertita citazione proprio al film di DePalma). In questi continui richiami autoreferenziali, il suo boss altro non è che un lontano parente del Nicholson di The Departed o del Macellaio di Daniel Day Lewis in Gangs of New York. DiCaprio invece, dopo quasi vent’anni, fa ancora il gioco della talpa, imbruttendosi nella figura stupida e avida di un conformista votato agli interessi del suprematismo bianco. Le radici di un Male spavaldo al quale Scorsese, dopo The Departed (l’unico e ultimo film di Scorsese a essere ambientato nel contemporaneo), si è rivolto sempre e solo sondandolo con la macchina del tempo cinematografico, riportandoci nelle cicatrici madide di sangue della società americana, a costo di combattere per una grandieur produttiva che non ha eguali nell’industria hollywoodiana di oggi. Questa ultima opera non fa eccezione, anche quando l’epica di oltre tre ore si smaschera nel suo rovescio: non ci sono i “cancelli del cielo” in questa tragedia quotidiana, ma solo la lenta caduta di una nazione al crepuscolo, come evidenziano i tagli di luce sempre più febbricitanti della fotografia di Rodrigo Prieto.
Con Killers of the Flower Moon Scorsese traccia un ennesimo e importante meridiano di sangue delle colpe statunitensi: come ci ha insegnato Paul Thomas Anderson nel 2007, dove scorre il petrolio scorrerà anche il sangue, nei legami famigliari dell’amore tossico di Mollie e Ernest, nucleo melodrammatico con cui il regista lima i confini dei generi e il loro intreccio nell’iconografia dell’Oklahoma di inizio Novecento. In questa epopea mai troppo gangster, mai troppo western, mai troppo thriller, l’indagine si smorza per lasciare trapelare il suo teatro grottesco di crimini e misfatti, come in una commedia dei fratelli Coen. Del resto l’FBI di un giovane J. Edgar Hoover (personaggio storico che DiCaprio aveva già interpretato nel 2011) arriverà nell’Osage County per indagare solo quando sarà troppo tardi. Quando la verità verrà a galla la controepica di Scorsese non può che dissolversi con una geniale ellissi che testimonia tutta il valore storico (e attuale) del suo cinema, mai stato così brutale come nel racconto fluviale di questa vicenda basata sul libro omonimo di David Grann.