El Conde: Pinochet è ancora tra noi, con le Nike ai piedi
La Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Marx così ci ha detto. E Pablo Larraín, che la tragedia della sua terra cilena l’ha sempre sentita addosso, incidendone ogni dolorosa cicatrice nel suo cinema, deve aver pensato che l’unico modo per recidere risolutivamente la carotide del suo eternamente impunito dittatore fosse quello di annichilirlo con il paradossale e ghigliottinarlo con la prosopopea.
Il cliché narrativo di ogni storia gotica che si rispetti in fondo parla chiaro: se non può ricorrere a un paletto di legno perché ogni ammazza vampiro è già stato corrotto, se i grani del rosario scorrono tra le mani di tuniche talari avide, se la luce del sole è già stata oscurata da un capitalistico buco nero che anestetizza il dissenso, ecco che la vampiresca forza ri-generatrice del Male non può che essere uccisa privandola del suo nutrimento. Lasciare che il potere controrivoluzionario, il vampiro eternamente nascosto nelle tenebre della Storia, muoia, esangue. Condannato dai fantasmi di tutte le rivoluzioni soffocate e tradite, dalle genti morte ammazzate e dalle terre depredate lungo tutto il tortuoso cammino di quello che amiamo definire progresso.
“Pinochet è morto libero, impunito e milionario. E quell’impunità lo ha reso eterno”, dice Larraín. Ha prosciugato il paese, commesso crimini contro l’umanità, ha rubato, torturato, giustiziato e assassinato. Senza mai affrontare un processo. Con tanto di foto con Giovanni Paolo II nel 1987.
Larraín, che del terribile ventennio cileno ha ben saputo restituire la complessità, (l’essenza del regime raccontata nel magnifico Tony Manero, il referendum del 1989 che aprì la strada alla fine della dittatura in No – I giorni dell’arcobaleno, la fine di Salvador Allende in Post Mortem), non era mai rimasto vis à vis con El Conde – il “vampiro” che da sempre aleggia nel fuori campo dei suoi film.
Il mondo che ha deformato e depredato lo crede morto, ma il dittatore cileno Augusto Pinochet (Jaime Vadell) è in realtà un vampiro con 250 anni sui canini che vive con la bestiale ma umana moglie Lucía (Gloria Münchmeyer) e il maggiordomo Fëdor (Alfredo Castro), un russo bianco che si è meritato sul campo il morso della vita eterna torturando comunisti. Il Generale, amareggiato da un giudizio storico irriconoscente che lo rimprovera per le sue frodi più che glorificarlo per la sua violenza, ha deciso di lasciarsi morire, rinunciando alle scorpacciate di cuori ancora palpitanti estirpati dal petto delle vittime rastrellate per le strade di Santiago. Ma quando sembra aver cambiato idea sulla sua imminente fine, i suoi cinque figli, determinati a mettere finalmente le mani sull’ingente patrimonio, assoldano una suora (Paula Luchsinger), per indagare sui denari nascosti all’estero e poi praticare un esorcismo sul “diabolico” padre e semmai ucciderlo.
Un’irriverente voce fuori campo, che infastidisce fuori misura prima di rivelarsi il vero coup de théâtre, riflette sulla ciclicità e sull’eredità del potere, quasi sottotitolando quanto accade sullo schermo. Il vampiro della controrivoluzione è nato in seno ai movimenti reazionari francesi, nutrendosi del sangue ancora grondante dalla ghigliottina che aveva mozzato la testa di Maria Antonietta dal suo regale collo. Suddito di un potere decapitato, ambisce all’oppressione delle genti per il suo personale piacere, è mantenuto in vita dal lato oscuro delle democrazie nei secoli successivi, fino ad arrivare in Cile, dove potrà edificare la sua brutale dittatura militare.
Larraín allestisce una sontuosa farsa delle maschere del potere giocando con il macabro e con l’allegoria horror: la sua ucronia, chiamando a gran voce il cinema d’autore europeo (da Dreyer e Murnau), intavola un discorso molto consapevole sulle ambiguità dei rapporti di potete tra democrazie, istituzioni religiose e totalitarismi nel Novecento come fossimo in un romanzo gotico a tinte pulp.
Tra volti fracassati con il martello, organi triturati nel frullatore e dittatori che con il mantello in spalla si librano nell’aria facendo risplendere i canini è facile intuire quanto l’ultimo film di Pablo Larraín sia decisamente eccentrico.
La bizzarria della sceneggiatura trova fortunatamente un perfetto bilanciamento nello splendido bianco e nero del grande direttore della fotografia Ed Lachman. Grazie al bassissimo livello di saturazione si crea un ambiente sincrono, melmoso, così fumoso da dissimulare i confini del reale, così torbido da rendere difficile distinguere la spada dalla croce.
La telecamera è sempre molto vicina ai suoi mostruosi protagonisti, tanto da rendersi intimidatoria, tanto da provare a risarcire la storia cilena di atti d’accusa rimasti senza sentenza, tanto da riuscire a mettere in risalto ciò che più tormenta sul volto del carnefice, ovvero il sorriso.
Eppure, nonostante lo stile elegante di un’opera estrosa abitata da meticolosi intenti allegorici la sfrontatezza sfuma troppo presto. Il film seduce per potenza visiva e spericolatezza simbolica ma con il suo incedere, tra verbosità e confuse traiettorie interpretative, la narrazione suggerisce solo un’esile riflessione sulla complessità della figura, storica e individuale, del dittatore cileno.
Ciò che più delude è che l’atrocità emerga solo mediante il personaggio della suora esorcista che ricorda sin troppo da vicino Renée Falconetti ne La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, che, attraverso la propria “inquisizione”, farà confessare ai figli ciò che sanno degli imbrogli del genitore, svelando a uso dello spettatore i crimini commessi dal fascista cileno.
Pinochet è un vampiro, e lo è anche chi nel Vecchio Continente gli è stato alleato, e l’articolata vicenda storica, sorretta dalle strutture geopolitiche che ancora oggi ci dominano, è stipata in una scatola narrativa già deteriorata: il fascismo è rappresentato come elemento non umano, allontanabile dall’ordinario tramite la sua alterità.
Pinochet è un’ingombrante ombra che ha infettato corpi e istinti con la sua villana forza corruttrice e che non smette, sopravvivendo ai suoi stessi crimini, di alimentare una malattia collettiva che serpeggia ovunque: l’oppressione. E se l’intento di Larraín era quello di mostrarci il Pinochet che c’è tra noi, pronto a rinascere in luoghi diversi, sempre ri-generato dalla stessa madre ispiratrice, non può bastare mettergli le Nike ai piedi.
L’epifanica entrata in scena della narratrice british non appare sufficiente a disvelare la ragnatela che ha voluto fortemente la repressione, i desaparecidos, le torture e l’omicidio in nome dell’anticomunismo. Il groviglio delle forze che governavano l’orrore restano ancora una volta fuori scena.
La storia è un profeta con lo sguardo rivolto all’indietro: per ciò che è stato e contro ciò che è stato annuncia ciò che sarà – scriveva Galeano ne Le Vene aperte dell’America Latina. Non ci resta che unirci al giornalista uruguaiano augurandoci che risvegliando la memoria si possa fuggire dal fascismo eterno.