Centoquarantotto giorni

Centoquarantotto giorni

Centoquarantotto giorni sono quelli che intercorrono tra il 2 maggio e il 27 settembre, quasi cinque mesi durante i quali gli sceneggiatori americani – quelli appartenenti al sindacato WGA, il Writers Guild of America, vale a dire più o meno tutti – hanno scioperato mettendo un freno alla produzione del racconto cinematografico e seriale. Per dirla in parole povere, buona parte delle menti che stanno dietro all’industria dell’intrattenimento americana hanno deciso di posare le penne e smettere di scrivere, causando un blocco produttivo non indifferente anche perché, come ci hanno tenuto a ricordare i fratelli Duffer su Twitter, “la scrittura non si ferma quando cominciano le riprese”.

Lo sciopero degli 11.500 sceneggiatori iscritti al WGA – sia nella sezione dell’Est che in quella dell’Ovest degli Stati Uniti – si è concluso dopo mesi di trattative e l’ormai quasi miracolosa firma di un accordo tra il sindacato e una coalizione composta dagli studios, dalle piattaforme di streaming e dalle società di produzione. Intanto, però, il 14 luglio anche gli attori di tv e cinema si erano uniti alla causa portando in piazza le loro diverse battaglie, in uno sciopero che ancora non accenna a terminare e che, come abbiamo visto a Venezia, ha avuto ripercussioni non soltanto sulla presenza di attori e attrici sui set, ma anche ai festival. Non si recita e non si promuove, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

Negli ultimi mesi si è detto tanto su questi scioperi che hanno paralizzato un’industria miliardaria, ma per capirne bene la reale portata – qualcosa che va ben oltre il “sono incazzat* perché la mia serie preferita uscirà più tardi del previsto” – dobbiamo fare un passo indietro e capire quali sono le motivazioni che hanno spinto quasi 200.000 persone tra sceneggiatori e attori a scioperare. Perché, checché se ne dica, non si tratta solo di persone ricche e annoiate che prendono dei cartelli in mano.

Di diritti residuali e intelligenza artificiale

Per evitare che questo articolo si trasformi in un poema, ci concentreremo sulla questione sceneggiatori. Non è la prima volta che uno sciopero degli sceneggiatori blocca la produzione cinematografica e seriale per tanto tempo o con tanto scalpore. Forse, però, è la prima volta che questi due fattori si uniscono. L’ultimo sciopero è durato poco più di tre mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008 ed è certamente tra quelli che dal 1960 (quando per l’ultima volta attori e sceneggiatori avevano unito le forze) a oggi sono stati più chiacchierati. Lo sciopero più lungo, invece, risale al 1988 con una durata che ha superato di poco i cinque mesi. In tutti i casi comunque gli scioperi hanno casualmente seguito grandi rivoluzioni nel campo dell’audiovisivo: la diffusione capillare delle VHS, dei DVD e adesso dello streaming sono stati e sono ancora avvenimenti che modificano la fruizione del prodotto in questione, ma sono anche piccole rivoluzioni che mettono in mano alle case di produzione e distribuzione un potere tutto nuovo e dunque ancora mai regolamentato.

Nel caso specifico a fare da contraltare al WGA è stata l’Alliance of Motion Picture and Television Producers, l’associazione che rappresenta case di produzione e piattaforme streaming come Netflix e Disney. Diverse sono state, e sono ancora per quanto riguarda attori e attrici, le dinamiche sul piatto. Una delle principali riguarda i cosiddetti diritti residuali sulle piattaforme, vale a dire i compensi che vengono dati a sceneggiatori e interpreti nel momento in cui film o serie tv vengono guardati in streaming. Mentre ogni replica trasmessa in tv corrisponde infatti a compensi maggiori per queste categorie, nello streaming non ci sono – o forse è meglio dire non c’erano – normative che legavano i diritti residuali alle visioni sulle piattaforme. Per intenderci: che una serie avesse 10 riproduzioni o 1 milione, variabile che cambia radicalmente le carte in tavola per la piattaforma che “ospita” la serie stessa, il guadagno degli sceneggiatori non cambiava di un dollaro. Anche perché, per dirla tutta, le piattaforme non erano legalmente tenute a condividere i dati di ascolto.

Ma la questione della quale si è discusso maggiormente sia a livello sindacale che tra l’opinione pubblica, e che forse ha pericolosamente finito per oscurare tutte le altre, è un’altra. Parliamo ovviamente dell’intelligenza artificiale, del suo utilizzo nel processo di scrittura ma anche dell’utilizzo del materiale prodotto dagli sceneggiatori per “formarla”. Altra grande tecnologia fino al 27 settembre non regolamentata, l’intelligenza artificiale è un altro dei grandi cambiamenti che, pur non interferendo nella fruizione del prodotto audiovisivo da parte degli utenti, certamente può cambiarne la realizzazione. Grazie all’accordo raggiunto sono cominciate le prime tutele a riguardo, tra le quali spiccano l’impossibilità delle case di produzione a obbligare gli sceneggiatori a usare l’AI e il dovere di segnalare qualora il materiale consegnato agli sceneggiatori sia stato creato con il suo utilizzo. D’altra parte, però, non si è riusciti a raggiungere un accordo relativo ai contenuti scritti dagli autori che “nutrono” l’intelligenza artificiale, e ciò fa temere che le acque che si sono appena calmate possano avere nuove onde – o nuovi tsunami – all’orizzonte.

A questo punto però una riflessione sorge spontanea

Lo sciopero degli sceneggiatori ha portato alla ribalta nel mondo dell’intrattenimento una questione della quale si sta parlando sempre di più anche in altri contesti professionali: l’intelligenza artificiale è un’arma a doppio taglio nel processo creativo. Se è vero infatti che può essere in 10 secondi artefice di spunti ai quali la mente umana arriverebbe solo dopo ore e ore di brainstorming, è altrettanto vero che si corre il rischio di sostituire – e non di sostenere – il lavoro mentale con quello meccanico. E bisogna tenere bene a mente che, per quanto creata e costantemente nutrita da spunti provenienti dal nostro intelletto, l’intelligenza artificiale non è umana.

Voler raccontare una storia, tirare fuori un’idea, ragionare sul modo migliore per metterla in atto e continuare a correggerla ancora, ancora e ancora fino a completa soddisfazione è un processo dispendioso in termini economici, di tempo e di energie. Sarebbe falso affermare che non sia velocizzabile grazie all’intervento di strumenti quali ChatGPT e similari, così come lo sarebbe dire che quelli offerti dall’intelligenza artificiale nell’ambito del processo creativo non siano spunti utili. È però fondamentale porre l’attenzione sulla differenza tra il concetto di partecipazione al processo creativo e quello di creazione di un prodotto, perché se nel primo caso l’AI può dare un enorme contributo, nel secondo il rischio che si corre è quello di un’automazione e standardizzazione in stile fabbrica fordista. Ma un film o una serie tv, così come un libro o una canzone, non sono bulloni da avvitare o pezzi da montare: sono necessità espressive uniche e come tali necessarie. Per quanto ChatGPT possa essere in grado di scrivere più o meno bene una sceneggiatura, quello che gli manca è la volontà di raccontare quella storia in quel modo. E di prodotti standardizzati di serie B, C e D ne abbiamo già abbastanza.

Il punto però è anche un altro, molto meno emozionale e più concreto

Viviamo in una società capitalista, e questa non credo sia una novità per nessuno. L’industria dell’intrattenimento è una di quelle che maggiormente alimenta – ed è alimentata da – questo capitalismo, e anche questa non è una mia incredibile illuminazione ma un dato di fatto. Ciò però non toglie il fatto che, come in qualsiasi altro contesto di sfruttamento, ci siano anche all’interno di quest’industria attori forti e attori deboli, sfruttatori e sfruttati. Non tutti gli sceneggiatori sono Quentin Tarantino, non tutti gli attori sono Brad Pitt, non tutti possono permettersi di dire di no, di rifiutare lavori perché le condizioni non sono quelle giuste. Non tutti hanno la possibilità di smuovere le cose da soli: insieme però è diverso, è insieme che si smuove il sistema. E allora si va avanti, un passetto alla volta, uno sciopero alla volta. Perché se l’ingiustizia impera, allora è cosa buona, giusta e necessaria unirsi per richiedere ciò che ci spetta, siano questi più soldi, più tutele o più diritti.

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