Ruggero Deodato, Cannibal Holocaust e la rappresentazione del male
Parto a parlare del cinema di Deodato, e in particolare di Cannibal Holocaust, ammettendo la mia totale ignoranza riguardo il genere orrorifico splatter e cannibal. Fino all’assegnazione di questo pezzo la personale esperienza con la cinematografia sanguinolenta ed estrema si limitava a pochi e trascurabili esempi recenti. Un cinema che, per me che sono stato adolescente nella prima metà dei ’10, in un periodo storico in cui la parola splatter era spesso associata alla mediocrità, non ha mai significato nulla di importante. Non ha contribuito a farmi capire il mondo che mi circondava, non mi ha ispirato, non ha arricchito i miei linguaggi.
E ancora oggi, spesso, mi riconosco nella strofa “In quest’epoca di pazzi, ci mancavano gli idioti dell’orrore”, di un Battiato distaccato e nonsense. È il dissesto culturale e politico – e per alcuni, morale – dei tempi a dare significato agli smembramenti dell’horror e a portarmi a pensare che alla fine il Battiato alienato di Bandiera Bianca e il Deodato della Trilogia dei cannibali sono figli delle stesse condizioni sociali. Sono solo due risposte diverse. Il distacco intellettuale di Battiato nell’analisi sulla condizione nevrotica dell’uomo moderno da una parte; dall’altra, la traduzione della schizofrenia della società della fine degli anni ’70 in una violenza esplicita e truculenta, radicalizzata fino a rendere l’immagine a volte più estrema della realtà stessa.
Nel 1980, mentre Cannibal Holocaust fa scalpore, Ronald Reagan è Presidente degli Stati Uniti; imperversa la guerra tra Iran e Iraq; scoppia la bomba a Bologna. Negli anni precedenti le Brigate Rosse, il rapimento Moro e la strategia della tensione; la violenza tra militanti, istituzioni e polizia. C’è un elemento chiave che trasforma tutto: i media; e con loro un pubblico, quello del boom economico e della tv, sempre più abituato all’immagine e immerso nei caratteri della società dello spettacolo. Cannibal Holocaust intercetta questi trend dando vita a un profondo e intricato dibattito sulla rappresentazione del male. Nel film di Deodato tutto succede davanti alla telecamera, il male si compie senza restrizioni e i protagonisti, parte integrante del sistema mediatico nel loro ruolo di reporter televisivi, sono prima testimoni, poi burattinai e infine vittime del male stesso. Ciò solleva la domanda: fino a che punto si può rappresentare il male? E quindi, dove si traccia la linea sottile tra il bene e il male nella rappresentazione di quest’ultimo?
Questi quesiti non trovano reali risposte, perché sono molteplici i fattori chiamati in causa. In primis consideriamo le scelte del regista e l’occhio e la fruizione del pubblico; poi, il dialogo con la realtà circostante e la consapevolezza della natura circolare della sfera mediatica dove ogni informazione rimbalza e giunge così alterata e distorta all’attenzione del pubblico. Ed è proprio in questo arco spazio temporale informativo che si trova la rappresentazione del male a fin di bene, che sia cronaca o educazione.
Questi elementi potrebbero anche non essere espliciti, e forse nemmeno perseguiti, nel cinema di Deodato. Emergono però mentre riflettiamo su cosa abbiamo appena visto in un film che può anche non incontrare i gusti personali ma che, grazie alla sua forza espressiva, è senza dubbio da considerare un capolavoro.