Oppenheimer e l’arma di auto-riflessione di massa
Possente e ingombrante Oppenheimer è il film di cui oggi abbiamo bisogno. Sempre sul punto di squarciare lo schermo, sovraccarico di riflessi e vertigine, il capolavoro di Nolan divora passato e futuro con la medesima voracità, lasciando il pubblico a rifletter-si in uno specchio in cui le immagini si dissolvono.
Divisioni di casta, di razza, di genere. Il paradigma dominante recide, sminuzza, frammenta. L’idea è che ogni questione presenta sostanzialmente due lati diametralmente opposti, una linearità evolutiva e un’autorità discendente dall’alto. Semplicisticamente dicotomica, ipocritamente coerente e illegittimamente dispotica. Questa la società che vediamo riflettersi nello specchio della Storia.
E alla stregua dell’inesorabile progredire dei secoli, Christopher Nolan imprime sulla superficie auto-riflettente del grande schermo il respiro del mondo che è stato, che verrà, e che allo stesso tempo, non potrà più essere.
Julius Robert Oppenheimer è stato l’uomo del collasso gravitazionale delle stelle e dello sgretolarsi dell’illusione dell’onni-potenza. Il volto di Cillian Murphy si assottiglia, i suoi occhi gelidi si perdono nell’abisso e la bomba atomica deflagra nel muto boato più frastornante della Storia.
Avviato nel 1939, il progetto Manhattan impiegò circa 130mila persone e costò circa due miliardi di dollari. Più di ogni altra arma convenzionale. E più di ogni altra scoperta tecnologica, più di ogni altra rivoluzione, la bomba atomica ha riscritto la storia dell’umanità gettando le basi per la prosperità del dopoguerra, edificando la società dei consumi e ridefinendo per sempre il rapporto tra conoscenza ed etica.
L’ultimo film di Nolan è un fittissimo e martellante dialogo tra la materia e l’antimateria, tra il bianco-nero e il colore, tra la terra che esplode e il nostro universo che implode, tra la teoria e la pratica, tra la storia e la sua morale.
La dialettica, estetica, concettuale e narrativa, va oltre l’intenzione di raccontare lo scontro tra l’ambigua sete di conoscenza del fisico Oppenheimer (Cillian Murphy) e l’ipocrita caccia alle streghe anticomunista del maccartismo in cui è impegnato Lewis Strauss (Robert Downey Jr.) della Commissione per l’energia atomica. L’insistente dicotomia di cui è intrisa la pellicola è la rappresentazione della quintessenza dello scontro primordiale, quello tra la volontà creatrice e la dissoluzione, quello tra la tracotanza umana e il fato vendicatore.
Quando il test nucleare Trinity riempie di fuoco il cielo dell’alba, il 16 luglio 1945 nel deserto della contea di Los Alamos nel Nuovo Messico, quella nuova luce, abbacinante e infernale, inghiotte ogni cosa. Ora la morte è in ogni cosa.
E Oppenheimer, il padre della bomba atomica, l’uomo che aveva saputo guardare così lontano, non può che ammettere a se stesso di essere stato cieco: nei suoi pensieri l’acqua inonda le strategie militari, il fuoco brucia i volti dei suoi interlocutori, i piedi incespicano in cadaveri ridotti in cenere. La lettera scarlatta della colpa gli rimarrà per sempre appiccicata addosso. E mentre il Potere si prepara a stritolarlo in un processo a porte chiuse in cui gli Stati Uniti tentano di redimersi affossando l’infedele Prometeo, il mondo non è già più lo stesso.
Hiroshima e Nagasaki sono state spazzate via. Più di 200.000 vittime. La morte è ovunque. E nonostante Nolan scelga di non mostrarci il suo volto, è una presenza palpabile: forse ancor più concreta perché relegata nel fuoricampo della nostra memoria storica. Così, mentre il test di distruzione si compie con successo, esplode dentro le nostre teste il silenzio della fine.
Fusioni fredde di estatica epifania e guerre fredde di mortifera manipolazione. La luce abbagliante della conoscenza e la luce annichilente della coscienza. Il ritratto del “distruttore di mondi” è riduzione cinematografica, narrazione visiva e sonora, dell’uomo che letteralmente “vede” la fisica, con atomi che guizzano e particelle che scoppiano, divenuto l’epitome del Novecento che ha privato l’uomo del futuro.
Nolan predispone lo schema narrativo così come ci ha abituati: camera a mano, spezzata linearità d’azione, intreccio di linee temporali, movimenti di macchina incalzanti, musiche poderose e opprimenti. Eppure in questo caso rinuncia alla costruzione prediligendo la disgregazione della narrativa, la “relatività” della materia. Il regista britannico riporta sullo schermo un’epoca storica popolata dalla psicanalisi, dall’arte astratta, dall’inconscio, dalle distorsioni e dalle paure. E ognuno di questi aspetti trova piena corrispondenza nelle sue scelte registiche. In Tenet un personaggio senza nome è chiamato a “salvare il mondo da ciò che avrebbe potuto essere”. In Oppenheimer l’operazione narrativa è esattamente opposta: un uomo dal nome inciso nella Storia si trasforma in spettatore inerme di quanto il mondo grazie alle sue scoperte è diventato. Divorato dal dubbio, lancia proclami contro Germania e Giappone, stringe le mani dei suoi nemici (con estremo disprezzo della moglie interpretata da Emily Blunt, unico personaggio spietatamente coerente), si fa padrone del mondo, mentre i suoi occhi si spengono in un freddissimo azzurro vitreo.
Nolan realizza un capolavoro non perché Oppenheimer sia un film perfetto ma in quanto riesce, mai come questa volta, a produrre senso nell’unica dimensione posta in fuoricampo. Il nostro presente.
Anche nelle sue opere precedenti erano contenuti i germi dell’auto-distruzione, della redenzione e della dannazione, ma non cedendo alla tentazione del labirintico puzzle cerebrale, pur cadendo di tanto in tanto in un didascalismo eccessivo (particolarmente seccante nei dialoghi tra il protagonista e le figure femminili, così come sul finale), Nolan con Oppenheimer riesce a dirci qualcosa in più. Si esce dalla sala con la tangibile spaventosa convinzione di vivere ancora in epoca di guerra fredda e maccartismo. La Bomba non ha ristabilito un ordine, non ha anticipatamente chiuso un secolo. La minaccia è vivissima e noi siamo le vittime di una guerra eterna a cui, non solo abbiamo dato origine, ma che non cessiamo di alimentare, incapaci di sbarazzarci del fucile che ci hanno detto di tenere saldo tra le mani, in attesa di ordini.