Icons
Il mese di luglio, questo mese di luglio, per BILLY, è un mese importante. Abbiamo deciso di rallentare con le uscite, ché fa caldo, di inserire qualche novità estiva, di domandarci se gli editoriali possano riuscire a stimolare un po’ di sano conflitto e di provare strade perdute perché sia più chiaro a tuttǝ ciò che ci piace(rebbe) fare.
Ma luglio è importante soprattutto perché escono Barbie di Greta Gerwig e gli ultimi (speriamo) episodi di Indiana Jones e di Mission Impossible, mentre, nello smarrimento generale, viene rimossa da HBO, dopo neanche una stagione e con la cancellazione in corsa di un intero episodio, The Idol di quel Sam Levinson che ci aveva innamorati con Euphoria.
E tutto questo succedersi di eventi eccitanti accade a meno di un mese dalla morte di Berlusconi, dalla conclusione di due serie cruciali come Succession e La fantastica signora Maisel, e alle porte di un’estate che vede i protagonisti (non solo musicali) degli anni ’90 tornare a calcare schermi e palchi e piattaforme, e quindi a popolare le nostre riflessioni, i nostri dubbi e, a volte, i nostri sogni.
Il presente lascia trasparire, nel controluce morente di un immaginario collettivo definitivamente compromesso dall’ultimo trentennio (almeno in questo paese di sciagure dimenticate), un irrinunciabile florilegio di icone in grado tanto di insistere sulle periferie dello sguardo quanto di occupare esattamente il centro delle narrazioni dominanti, caricandosi, in maniera più o meno consapevole, il peso della loro provenienza storica, ossia del periodo di cui sono emblema. Perché? E perché parliamo di icone, in questo caldo numero di luglio?
Perché l’icona è una porta dell’invisibile. Se la sua origine storica rimanda direttamente alla raffigurazione del sacro, tanto che l’icona si qualifica come immagine sacra a tutti gli effetti, ecco allora che risulta evidente come la sua determinazione fondante sia quella di appartenere a un culto, e quindi a un’esperienza potenzialmente spirituale: «Come una visione sfolgorante, straripante di luce si mostra l’icona. È come se essa non fosse circoscritta, non puoi parlare di questa visione altrimenti che con la parola: soverchia. Si riconosce che è superiore a tutto ciò che la circonda, situata in uno spazio tutto suo e nell’eternità» (P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano, Adelphi, 1977). Si potrebbe allora dire che, per esperire e praticare l’icona, è necessaria una pratica rituale, mediante la quale l’icona viene consacrata. È un’ipotesi che davvero appartiene solo all’immagine sacra e al passato?
Cioè, se questo valeva per la cultura cristiana bizantina e per l’iconografia cristiana del V secolo, siamo proprio così certi che la nostra relazione con l’icona contemporanea, con tutto il portato di cui questa delimitazione oggi è impregnata e qualsiasi declinazione si voglia provare a darne, sia davvero così differente? Siamo davvero convinti di non aver necessità di emblemi collettivi per significare il presente, soprattutto se provengono dal passato, nel momento in cui il futuro non esiste e il presente è un mercato il cui immaginario è putrescente?
Non basta. Se pensiamo, restando al campo dell’immagine sacra e del rapporto con essa, che un’icona è manifestazione della realtà divina originaria che nulla a che a fare con un oggetto artistico o con la fantasia creativa di un individuo, risulta evidente come l’icona sia, come dice Patella, «rivelazione e testimonianza» e mai una «rappresentazione sensibile di alcunché» (G. Patella, Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro). Perciò, secondo Florenskij, l’icona è una soglia tra il mondo umano e quello divino, attraverso la quale noi mortali possiamo permetterci di guardare perché è nell’icona che si manifesta l’invisibile (e il divino) e irrompe la sua potenza.
Bene, ma nel momento in cui il concetto di sacro e di immagine sacra perdono e hanno perso la loro dimensione prettamente religiosa e spirituale, forse diventa davvero irrinunciabile, per questa contemporaneità, la pulsione, la necessità, il dialogo con l’icona – consapevoli però che la liturgia diviene laica e secolarizzata e che il rito si fa civile – perché l’icona, anche nella società dello spettacolo, non è una mera imitazione dell’originale, ma è invece l’originale essa stessa, pur mantenendo, per la sua natura di soglia, quella forte ed enigmatica ambiguità che è propria di tutto ciò che si colloca tra gli opposti, poiché oltre a vedere, attraverso l’icona, noi siamo anche visti, dal momento che di finestra si tratta.
Quanto è attuale tutto questo, e soprattutto cosa diamine c’entra con il luglio di BILLY? Noi sappiamo che per secoli, anche in base a ciò che abbiamo appena detto, la rappresentazione ha svolto la funzione fondamentale di permettere all’essere umano di entrare in un certo rapporto con il mondo, fornendo strumenti di comprensione e agio. Oggi che l’idea di rappresentazione è smarrita, che il rapporto con il reale si sta disgregando, che il concetto di virtuale ha perso di senso, che il divino è indefinibile e il sacro è diffuso, ecco allora che il recupero di elementi emblematici, iconografici più che iconici, provenienti da sfere temporali e semantiche distanti ma non ancora superate, permette non tanto la rassicurazione, quanto delinea una pulsione disperata, inquieta e confusa di futuro.
Quindi se una parte della risposta alla nostra domanda iniziale è che abbiamo bisogno del passato (e delle sue icone) per significare il presente in quanto il futuro è un’ipotesi impraticabile, esiste però un’altra possibilità che vogliamo provare ad abitare. Parte delle icone di cui parliamo questo mese è largamente inattuale, ma inattuale nella concezione nietzschiana del termine: l’inattualità «non è la pretesa di raggiungere valori o statuti metastorici, ma, tutt’al contrario, garanzia di futuro e differenza» (M. Perniola, L’avventura situazionista). Vogliamo cioè sperare di essere contro i nostri tempi a favore di un tempo da costruire, oltrepassando il presente «rendendolo impercettibile e ridipingendovi sopra». L’icona in questo senso è un possibile passaggio, una forma di resistenza, che passa in modo diverso attraverso le porte del sacro.
Esiste però una terza riflessione, una terza strada, legata a ciò che per certi aspetti rappresenta l’antitesi dell’icona, o un suo surrogato, ma che ne vive una connessione di senso: il simulacro. Se l’icona spersonalizza ed eterna la vita, come abbiamo visto, il simulacro invece attualizza qualcosa di irrapresentabile. Nel senso che se è vero che viviamo nella società dell’immagine intesa come una società in cui l’immagine, divenuta meramente tecnica, «non è più semplicemente pensabile come un qualcosa che si frappone tra l’uomo e la realtà, ma diventa una realtà autonoma essa stessa, una nuova realtà, diventa una “cosa” di cui disporre, da manipolare, che influisce sul nostro stesso immaginario» (Patella), allora è chiaro come l’immagine prenda il posto del reale, sgretolando il quotidiano per ricrearne uno totalmente differente che vive come simulazione.
Jean Baudrillard, in questo senso, parla appunto di “un’era della simulazione” edificata dal simulacro, vale a dire da una immagine artificiale e mass-mediatica che non conosce rapporto o dipendenza diretta rispetto al reale, e non è quindi icona, ma si mostra totalmente per ciò che è nel momento stesso in cui appare, auto-sufficiente come in un film di Yuri Ancarani. «Il simulacro non è un’immagine pittorica, che riproduce un prototipo esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale, (…) immagine senza identità: esso non è identico ad alcun originale esterno e non ha una sua originalità autonoma» (M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1983).
Quindi l’immagine contemporanea, in questo senso, non rimanda a un significato ma riferisce a sé come a una mancanza di realtà, di cui intende essere una ricostruzione artificiale e quindi una simulazione, distruggendo la realtà di cui è mancanza, passando infine dallo statuto di immagine a essere un simulacro. I funerali di Silvio Berlusconi hanno rappresentato l’apice (in)visibile di questo percorso, il coronamento di trent’anni di devastazione culturale e di demolizione del senso tanto dell’immagine quanto dell’icona, hanno celebrato il trionfo del simulacro, divenuto esercizio di potere, in maniera non dissimile dall’auto-rappresentazione mediatica — assolutoria e colpevolizzante — dell’impotenza questuante delle nostre istituzioni di fronte al disastro dell’alluvione.
Eccola qui, allora, una terza possibile risposta all’ingombro del passato che leggiamo all’interno del “desiderio di icone” che segna la narrazione audio-visuale di questo luglio lungo e caldo, una risposta ancora e giustamente ambigua, ché poi, alla fine, noi siamo qui a porre dei dubbi, a fornire ipotesi, mica a dare delle soluzioni.
Per quello ci sono le icone.