L’emergenza o la peste del dissenso
«È altrettanto ragionevole rappresentare una specie di prigionia con un’altra quanto lo è rappresentare qualsiasi cosa che esiste realmente con qualcosa che non esiste»
È con queste parole di Daniel Defoe che Albert Camus fa iniziare il suo secondo romanzo: La Peste.
Queste frasi mi sembrano oggi inquietantemente profetiche, considerando che molte persone si sono avvicinate a questo libro negli anni della pandemia da Covid-19 per cercare di trovare un precedente, una rappresentazione dell’angoscia che stavano vivendo e a cui nessunə sembrava essere preparatə. Io ho avuto la fortuna di leggere questo romanzo nel 2019, in tempi non sospetti, e quindi non l’ho irrimediabilmente associato alla fase pandemica, ma, più che altro, mi ha lasciato un’immagine di quello che significa vivere in uno stato di emergenza perenne.
Nell’immaginario comune, l’emergenza è qualcosa di imprevedibile, strutturalmente ingovernabile, che viene concepita come sommo pericolo, sempre diversa a sé stessa e senza precedenti. A questa narrazione dell’emergenza imprevedibile, il potere costituito reagisce cercando di evitare qualsiasi frammentazione del corpo sociale, negando valore all’autodeterminazione e all’espressione del dissenso, in nome del bene supremo: la vita.
Una delle grandi intuizioni di Camus, invece, è proprio quella di opporsi a questa narrazione dell’emergenza, di suggerire che non sia qualcosa di imprevedibile e ingovernabile:
«Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. […] Quando scoppia una guerra tutti dicono: “è una follia, non durerà”. E forse una guerra è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare. La follia è ostinata, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo i nostri concittadini erano come tutti gli altri, erano presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili».
La peste camusiana frammenta l’unità del corpo sociale e il bilanciamento dei diritti, facendo prevalere la vita su qualsiasi altra riflessione. L’arrivo della peste toglie agli abitanti di Orano, cittadina in cui di solito non succede assolutamente niente, qualsiasi possibilità di futuro e quello che lo scrittore rimprovera ai suoi personaggi è di non riuscire ad accettare il flagello e il loro ingenuo tentativo di continuare a ignorarlo:
«Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni?».
E, a mio avviso, uno dei temi principali di questo capolavoro è proprio questo: la peste che sopprime le discussioni. Il clima culturale che si viene a creare durante ogni emergenza è infatti quello di una polarizzazione della società, del ritorno a un linguaggio bellico e apocalittico e a una politica emotiva che parla solo per concessioni e autorizzazioni. L’emergenza sopprime il dissenso e permette al potere costituito, attraverso l’onda emotiva, spinta principalmente dalla paura della morte, di veicolare l’opinione pubblica e farla diventare il suo megafono. Come scrive Andrea Venanzoni nel suo “La tirannia dell’emergenza”: «l’idea dello Stato contemporaneo in tempo di emergenza è quella di livellare talmente tanto l’opinione pubblica da trasformarla in un ciclico plebiscito auto-confermativo delle opzioni concretamente di volta in volta adottate». Questo clima acuisce la spirale del silenzio teorizzata da Noelle-Neumann (ovvero la riduzione al silenzio delle opzioni minoritarie e dissenzienti all’interno dell’opinione pubblica), rendendo virtualmente impossibile qualsiasi dibattito politico e qualsiasi opinione realmente dissonante, diventando funzionale al rafforzamento del potere costituito.
Anche dal punto di vista strettamente giuridico, le norme adottate per far fronte a situazioni emergenziali creano dei precedenti e rimangono sedimentate negli ordinamenti, non spariscono mai e sono sempre pronte ad essere riattivate e inasprite al minimo segnale, esattamente come il bacillo della peste di Camus.
Infatti, è a questa considerazione che lo scrittore algerino affida l’ultima scena del romanzo, in cui il dottor Rieux, voce narrante, guardava dall’alto l’esultanza della folla che aveva sconfitto la peste, ricordandosi che quell’esultanza era sempre minacciata, «perché lui sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice».