L’esercizio del potere post-ideologico
Nel corso del Novecento i grandi movimenti di massa erano guidati da poteri che facevano riferimento a delle scale di valori in larga misura contrapposti, la cui natura era dettata da visioni economiche, sociali e politiche strutturalmente diverse, ma che davano vita a un vincolo emotivo tra individui senza il quale non ci sarebbe stata coesione sociale.
La crisi e la caduta di questo modello rappresentativo e la conseguente delegittimizzazione dei valori su cui si fondava, ha generato un rifiuto delle vecchie logiche gerarchiche e piramidali fin quasi a tendere a una logica orizzontale del potere, in cui ogni individualità rivendica una propria autorità, ma anche il diritto di negare responsabilità e doveri (che vengono riconosciuti ad altri) creando un rapporto di ambivalenza e ambiguità del modello di rappresentanza sociale.
Ne consegue che il potere, ovviamente, non abbia smesso di essere esercitato ma che, nell’epoca del post-ideologismo, abbia dovuto cercare una nuova chiave di interpretazione dei legami sociali, un instrumentum regni che sostituisse quei legami che in precedenza erano cementati da dottrine e sistemi di pensiero seguiti in maniera quasi religiosa perché, citando Giglioli nella sua Critica della vittima, «affinché le parti dimentichino di essere state in origine differenti, portatrici di istanze che in partenza non erano le stesse, occorre che tra esse si generi un legame emotivo e non solo razionale. A tale scopo è necessario individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime».
Il modo scelto per generare questo legame emotivo all’interno di società sempre più complesse è spesso quello di indurre uno stato perpetuo di allarme, di urgenza e di emergenza da cui il potere trae non solo legittimità ma anche, e soprattutto, giustificazione.
La narrazione continua e inesauribile di qualsiasi evento che venga trasformato in emergenza (in ordine sparso: migranti, terrorismo, sanità, questione idrica, ecc…) garantisce all’autorità non solo la fondatezza stessa della propria esistenza, ma anche la possibilità di ipostatizzare i fenomeni come fatti, senza la necessità di doverli analizzare, spiegare o comprenderne le cause.
Ma soprattutto, come ci spiega bene Sennet in Autorità «il bisogno di legittimare le proprie opinioni in termini di offesa o di sofferenza subita lega sempre di più gli uomini alle offese stesse: quello di cui ho bisogno è definito nei termini di quello che mi è stato negato» ( se non addirittura quello che potrebbe essermi negato) e questo bisogno si traduce nella giustificazione aprioristica di qualsiasi mezzo venga utilizzato per impedire, ariginare o rimandare il problema e ha come conseguenza, nella narrazione emergenziale perpetua, di ammutolire il conflitto sul fatto sociale dipingendo il dissenso e la critica come il boicottaggio della soluzione.
Questo tipo di narrazione viene spesso tradotta dalla produzione audiovisiva, contemporanea e non, attraverso la descrizione di società (semplici o complesse che siano) in cui sta avendo luogo, o ha avuto luogo, un evento catastrofico che costringe il potere a riorganizzarsi. Quello che cercheremo di fare questo mese è cercare di capire e analizzare come, nella finzione cinematografica (e quindi nella realtà), l’autorità e il potere cerchino sempre di sopravvivere a sé stesse e alle loro colpe, di come e a quale prezzo le masse sociali abbiano quasi sempre necessità di sentirsi rappresentati nelle loro individualità.