50 – Santarcangelo Festival
Dentro la memoria
Come si può raccontare la storia di un Festival attraverso l’archivio delle sue immagini? Questo interrogativo anima il progetto di 50 – Santarcangelo Festival, documentario scritto e diretto da Michele Mellara e Alessandro Rossi. Il film si propone di racchiudere nella durata di poco più di un’ora la storia di uno dei festival teatrali più importanti d’Italia, una vera e propria mecca internazionale per le compagnie teatrali di tutto il mondo dal 1971, anno della sua fondazione, ad oggi.
Presentato nel 2020 alle Giornate degli Autori della Mostra Internazionale del Festival di Venezia, il film dei due registi si avvale di una vasta documentazione d’archivio che riporta alla luce momenti di vita nella piazza di Santarcangelo, a partire dalle prime edizioni svoltesi in un’epoca in cui i dispositivi di videoripresa permettevano un’agevole possibilità di documentare la realtà sul momento del tempo, sprigionando la memoria di una gamma performartiva dalle infinite tonalità che hanno animato lo spirito del festival. Santarcangelo quindi un po’ come una Nashville altmaniana del mondo teatrale, o come viene detto in un momento del film “una Woodstock italiana” ma aperta al dialogo multiculturale, un polo attrattivo che ha permesso ai popoli di specchiarsi nelle infinite forme che il teatro ancora oggi può proporre e sperimentare a partire da quello che è successo prima, mantenendo un dialogo vivo tra il vecchio e il nuovo, tra cultura e politica, tra locale e internazionale.
Una premessa quindi avvincente dato il pluralismo narrativo che può rivivere nella memoria visiva documentata attorno al suo oggetto cinematografico. Dispiace tuttavia constatare come questa premessa non venga mantenuta, dal momento che lo sguardo adottato dai due registi sacrifica l’organicità dell’archivio su un tipo di racconto istituzionale che procede rigidamente per accumulo. Le interviste circoscrivono le voci del racconto nei ruoli dei vari direttori e pensatori del festival finendo per ingabbiare il respiro su un passo compilativo poco avvincente, fin troppo trattenuto su una cronologia lineare e dove il girato viene integrato in maniera anonima e scolastica. Si avverte inoltre l’assenza di un dialogo narrativo che si apra di più anche agli artisti che vennero coinvolti, o addirittura alla gente anche più comune che abita da anni dentro quella realtà, tanto che il tono autocelebrativo dei diretti intervistati invade col procedere dei minuti, finendo per precludere così una divulgazione più efficace ed evocativa verso chi (come le nuove generazioni) non ha una memoria locale di questo scenario così ricco e importante. Un lavoro non pienamente riuscito, ma che rimane nelle intenzioni un tentativo interessante di ragionare sulla memoria culturale di un istituzione del genere e su nuovi modi di sperimentare con il materiale d’archivio che si costruisce attorno ai festival.