Cinema in fiamme
Essendoci stata una pandemia, qualche anno fa, come i più arguti tra noi hanno notato, è facile dire che quello attuale sia un cinema post-pandemico. Eppure, come già in parte mirabilmente descritto dal per altro co-direttore di BILLY, Marco Bacchi, la situazione attuale non è la medesima che abbiamo conosciuto dopo eventi storici — e sovra-rappresentati — come l’11 settembre o ipertrofici come il disastro nucleare di Fukushima.
Sappiamo quanto sia normale che il cinema, come ogni prodotto culturale che sia davvero vivo e puls(ion)ante, venga plasmato e informato (anche) dal contesto storico, sociale e culturale in cui viene prodotto, in cui si agita e di cui cerca istintivamente di intercettare movimenti e conflitti.
Dopo la pandemia, però, ci sembra quasi di partecipare — e non di assistere, ché il cinema contemporaneo è brutalmente persistente — di un contesto narrativo sostanzialmente bloccato, in cui anche la perturbante e immorale capacità delle immagini odierne di essere leggere e libere viene ingabbiata in un immaginario collettivo talmente saturo e compresso da non poter (quasi) più immaginare altro da ciò che è (stato), se non piegando più o meno consapevolmente il passato al presente, a tratti ignorandone il senso originario o re-immaginandolo in tradimento e traduzione.
Sia chiaro, il nostro non è un giudizio di valore né una striminzita critica all’esistente, quanto piuttosto un tentativo di lettura complessiva, che magari accoglie suggestioni non solo cinematografiche, e che intende provare a restituire un contrasto — positivo, creativo e umano — che abbiamo occupato rispetto ai numerosi prodotti di recente attraversati.
Se pensiamo ad Afire di Christian Petzold, film teoricamente lontano dalla pandemia e apparentemente (e inizialmente) pellicola dai toni leggeri e a tratti romantici, ciò che possiamo percepire e sentire è, invece, alla fine, una cupa e immota relazione di anime statiche, incapaci di sviluppare una vera catarsi, assediate dalla fine immanente e dal pericolo esteso e assediante di un’estate tragica e oramai paradossalmente normale.
Allo stesso modo, pur partendo esattamente dal punto opposto, Le mura di Bergamo, il lungo documentario di Stefano Savona, coraggioso anche nella sua imperfezione, dedicato proprio ai giorni più brutali della pandemia, recupera e rielabora le immagini devastanti di quei giorni della città lombarda e le lascia a monito, come un simulacro, per un gruppo di sopravvissuti che cerca di recuperare un senso per la propria fortuna, abitando il dolore e lo strazio di chi è stato, in quei giorni, meno fortunato. Non c’è altra possibilità che guardarsi e parlare, per queste persone, non ci sono altre immagini se non la propria, oggi, ferma, significata dalla fila di bare trasportate dall’esercito, nel dialogo con la colpa, intesa come senso, e con un presente inceppato.
E di cos’altro parla Hong Sangsoo nel suo ultimo In water se non dell’impossibilità di ipotizzare, creare ed edificare immagini altre? Tre personaggi che cercano di fare un film, di costruire nuove storie e nuove visioni, e non ci riescono, ci provano e non si può dire che falliscano, perché non si può fallire qualcosa che non può esistere. Il tutto filmato con una profondità di campo ridottissima e vicinissima alla macchina da presa, ossia allo spettatore e al suo sguardo miope, a dimostrare, vivendolo, che il futuro — che è sempre un campo lungo — è sfocato, illeggibile, almeno fino alla morte.
Persino La Bête dans la jungle di Patric Chiha, che inizia negli anni ’70 e finisce all’inizio del nuovo millennio, non riesce che a raccontare la vita laterale, rispetto all’esistente, dei due protagonisti, riadattando Henry James, per mostrare come il senso dell’esistere sia l’attesa di un evento che rallenta e rimanda, che sembra non arrivare mai e che invece sarebbe destinato a sconvolgere il futuro, a dirci la verità, finendo per congelare gli affetti e i desideri, fino a quando — di nuovo — l’epifania non può che essere mortale, chiudendo a ogni possibilità di felicità.
Ma quindi cosa sembra saturare così tanto l’immaginario visivo post-pandemico da assorbire ogni ipotesi di sguardo? Beh, molto banalmente, la pandemia stessa, ossia un vissuto talmente denso e collettivo da non permettere la fuoriuscita di luce — come da un buco nero — che assecondi una possibilità differente. Un’immaginario che si dovrebbe decespugliare dalle immagini ingombranti, ricattatorie, ancora umanamente ingestibili e non rielaborabili della tragedia pandemica e della sua irresistibile deriva necrofila e colpevolizzante, trasformata in pulsione freudiana di morte, senza alcuna vitalità disperata a permettere, anche follemente, di immaginare l’impossibile.