The Whale: l’atto di fede di Aronofsky che neutralizza il futuro
Cesare Pavese lo definiva un “poema sacro”. Un’allegoria della vita intera, fatta di vertigine e abissi, di accanito antagonismo e di mare infinito. La baleniera Pequod, il narratore dal nome biblico, Ismaele, che vagabonda percorrendo “la parte acquea del mondo” per cacciare la malinconia, e il capitano Achab, consumato da un’idea incurabile di vendetta verso colei che, enorme e bianchissima, celebra l’inesorabile disinteresse della natura nei confronti dell’uomo.
E così come Herman Melville nel suo capolavoro Moby Dick anche Darren Aronofsky con The Whale ci immerge in un oceano di colpe e ricordi dolorosissimi. Ma non c’è vento a frustare le vele, solo un fagocitante divano in un asfissiante appartamento: una caverna isolata dal mondo, poco illuminata, con il passato trattenuto a fatica dentro porte chiuse.
Poche intermittenti comparse invadono brevemente la zattera solitaria di Charlie: per non più di qualche ora, giusto il tempo di riportare a galla vecchi rancori o per illudersi che la preghiera possa mettere in pausa la sofferenza. Persino al fattorino della pizza non è consentito affacciarsi all’esistenza del protagonista, perché a gettare lo sguardo oltre quella porta si rischia di rimanere invischiati nella rassegnazione, impantanati nella sottomessa accettazione della fine.
Nessuno può salvarlo. Charlie non vuole essere salvato. Si affanna alla ricerca dell’assoluzione per il dolore causato, annientato, arreso, vinto dal furioso impulso autodistruttivo che lo porta ad uccidersi con il cibo.
Una tuta prostetica di oltre centotrenta chili di peso ha ingabbiato il corpo dell’attore Brendan Fraser per esibire un corpo mastodontico, scrutato dalla macchina da presa con delle mezze carrellate circolari che ne evidenziano l’imponenza e l’impotenza. Un corpo compresso in un formato 4:3 che lo soffoca, lo torchia, lo umilia.
The Whale si apre inaspettatamente con un campo lungo: la camera si accende in uno spazio aperto, su di una strada che attraversa il verde dei campi, ma il refrigerio visivo è subito oppresso da uno zoom su di un quadrato nero, la webcam spenta con cui Charlie nasconde la sua immagine agli studenti del suo corso di scrittura online. Entriamo in questo modo nel suo irrespirabile appartamento, passando per quell’unica, seppur offuscata, finestra virtuale sul mondo. Ne usciremo solo alla fine del film, e solo se avremo imparato ad arrenderci, fatto ammenda e atteso rassegnati la fine.
Aronofsky è il regista di corpi consumati e logorati (Requiem for a Dream, The Wrestler), di corpi minacciati dalla perfezione (Il Cigno Nero) o dalla malattia (The Fountain), di corpi braccati e violati (Madre!). In The Whale il regista riempie lo schermo con un corpo ingombrante, prigioniero, trasfigurato dalla enorme quantità di cibo inghiottita. Un corpo che, impossibile da sottrarre alla vista, accende la natura voyeuristica dello sguardo di Darren Aronofsky, che si insinua tra le gocce di sudore, prova a farsi spazio tra le pieghe della pelle dilatata, afferra gli sguardi disperati e rabbiosi del suo protagonista.
Un degrado umano mostruoso, mostrato e ostentato, in fedele linea con quella pornografia del dolore in cui il cinema di Aronofsky si è sempre crogiolato, sfoggio che, nel caso di The Whale, si fa probabilmente fin troppo ricattatorio. Sfruttando la natura teatrale dell’opera – il film è tratto dall’omonima piéce teatrale scritta da Samuel D. Hunter (richiamato poi per la sceneggiatura) – e ambientando l’intero svolgimento dentro al desolato appartamento, l’opprimente formato 4:3 deforma in maniera quasi insopportabile il corpo del protagonista, inchiodandolo a quello squallido divano per i giorni che gli restano da vivere. Una passione quasi cristologica quella di Charlie che, rassegnato, attende docile la liberazione dal senso di colpa terreno.
Solo un ricovero immediato potrebbe salvarlo. Ma Charlie si rifiuta.
Continua a dispensare buoni consigli ai suoi studenti, li invita a rivelarsi per ciò che sono, li esorta a scrivere qualcosa che sia autentico, mentre lui nasconde la sua immagine, si corazza dietro al cibo, mantiene ostinatamente i ricordi sotto chiave.
Continua ad inseguire la speranza di essere perdonato dalla figlia per averla abbandonata, divorato dalla disperata quanto egoistica ossessione di essere assolto.
E continua a tormentarsi per non essere riuscito a salvare l’uomo di cui era innamorato. Ingabbiato nel rimorso e condannato dall’assenza, Charlie desidera sanare almeno una delle crepe della sua anima. La giovane figlia ribelle (Sadie Sink) è l’unica che può accordargli il permesso di andare, di demolire le sbarre, abbandonare quel corpo e far entrare finalmente la luce.
È uno straziante desiderio di morte quello che accompagna Charlie nella sua spasmodica ricerca del perdono. Un disperato temporeggiamento, trascorso nell’inamovibilità della sua gabbia, nella convulsa speranza di procurarsi una consolazione che possa silenziare il dolore. Come la tesina sul romanzo Moby Dick scritta dalla figlia (da qui prende spunto la balena indicata nel titolo), le cui parole sanno ripacificarlo col mondo.
“Mi hanno rattristato soprattutto i capitoli noiosi sulla balena, perché sapevo che l’autore voleva solo salvarci dalla sua triste storia”. Così scrive la figlia Ellie. Così intende fare Charlie, posticipare. Non c’è futuro. Non c’è spazio per rielaborare la perdita del partner, non c’è tempo per ricostruire un vero rapporto con la figlia adolescente. La balena bianca/Charlie si sottomette alla fermezza vendicativa del capitano Achab, che in The Whale rintracciamo in tutti i personaggi che ruotano attorno al protagonista, nell’egoismo dell’ex compagna, nella acerba crudeltà dell’adolescenza di Ellie, nell’insistente giovane missionario che vorrebbe convertirlo per poi crocifiggere le sue colpe.
Posticipare. Disinnescare il futuro, mettere in pausa il dolore che impernia il presente, per appartarsi nella fantasticheria della resurrezione.
Melville dopo aver scritto Moby Dick dirà: “Ho scritto un romanzo malvagio ma mi sento immacolato come un agnellino”. Lo scrittore satura a tal punto le pagine del suo romanzo di un così profondo pessimismo legato alla natura intrinsecamente cattiva dell’uomo, da sentirsene liberato. Salvato, almeno momentaneamente, per aver ritardato la sofferenza, alla quale non si può far altro che rassegnarsi.
The Whale risente della forzatura di stipare nel soffocante appartamento di Charlie un eccessivo conglomerato di tematiche. Ci sono il decadimento fisico, l’omofobia e la discriminazione, il valore dell’insegnamento e della verità, il fanatismo religioso, le dipendenze, l’egoismo, l’isolamento, la paura di vivere e la paura di morire.
Il sovraffollamento narrativo ci ostacola, ci impedisce di addentrarci nel dolore di Charlie, di perderci nel vocione potente e gentile di Fraser e in quei suoi occhi in cui intravediamo la sofferenza del mondo intero. Vorremmo restare soli con la sua grande interpretazione (premiata con l’Oscar), mentre siamo obbligati a far la conoscenza del giovane missionario confuso, che predica la fine dei tempi quasi augurandosela tanto è privo di prospettive. Costretti a fare i conti con gli isterismi dell’adolescenza della figlia Ellie, un personaggio stereotipato, troppo poco crudele o troppo poco caritatevole per risultare sufficientemente interessante. Forzati ad occuparci dell’ex compagna di Charlie che irrompe nel suo appartamento per immergere la sua grande nostalgia in un bicchiere riempito con il superalcolico riposto nel solito scaffale sopra al lavello, impegnati a domandarci cosa penserà il fattorino della pizza che lascia sempre enormi quantità di cibo davanti ad una porta che per vergogna non gli viene mai aperta.
Se Moby Dick è il romanzo della lotta del bene contro il male, dell’ossessione vendicativa e della redenzione, dell’accanita malvagità umana e del riscatto, The Whale sceglie di raccontare questi conflitti filtrando il senso della vita per mezzo di un dolore salvifico. Nella convinzione che nessuno possa salvare qualcun altro, il film finisce, forse contraddicendo se stesso, per anteporre la rassegnazione all’ambizione di una liberazione.
L’affrancamento dalla sofferenza passa per la negazione del futuro. Resta solo una dissolvenza verso il bianco, un’ascensione spirituale, una preghiera che annichilisce le colpe e trascina il nostro corpo stanco e rassegnato dove, forse, potrà smette di provare dolore.