Billy on Tár – Apollineo e dionisiaco nell’ultimo film di Todd Field
Lydia Tár (Cate Blanchett) è la direttrice d’orchestra più famosa al mondo. Vincitrice dei maggiori premi musicali, è a capo della Berliner Philarmonic, autrice di best seller, professoressa alla Juilliard School di New York. È sposata con la prima violino della sua filarmonica, ha una figlia adottiva, vive tra viaggi e lussi di ogni tipo.
In tutta la prima parte del film, ogni cosa che Lydia Tár fa ispira: il suo modo di insegnare e contrastare le idee di studenti iconoclasti volenterosi di cancellare Bach, ritenuto colpevole di una esagerata voracità sessuale; il ruolo di genitore deciso e giusto, che difende la figlia dai bulli a scuola; la moglie capace di trovare, nel bel mezzo della notte, gli ansiolitici della compagna per poi consolarla in un abbraccio affettuoso; la direttrice, o ancora meglio il Maestro, in grado di esaltare musicisti, spettatori e collaboratori mentre prepara la sinfonia n. 5 di Mahler nel solco di Abbado. Militante della musica come solo i veri passionari dell’arte sanno fare, Tár è incendiaria, forte, viva e noi proviamo, per lei, un timore reverenziale: quello che si percepisce, indipendentemente dal giudizio che ne abbiamo, davanti a un premio Nobel, un capo di stato, un Papa.
Ma a metà della storia spuntano le storture presenti nella tensione palpabile fin dalle prime scene del film: licenziamenti strategici e stratagemmi per favorire le personali volontà sessuali e una cattiveria che, come edera rampante, si espande portando ombre e dubbi sull’integrità professionale ed etica di Lydia Tár. Tutte le azioni che prima la rendevano grande ai nostri occhi diventano fonte di imbarazzo e giudizio: lei è predatrice sessuale; una compagna incapace di percepire il dolore provocato dalle sue azioni pubbliche e private; lei, prima la più preparata, superiore, inarrivabile, vortica in una spirale di scandali, bassezze e diavolerie terribili. Fino alla completa implosione e alienazione dal mondo che la esaltava.
La grandezza del film, come nelle migliori tragedie, sta nel farsi portatore di un racconto corale tutt’altro che accusatorio. E la mancanza di accuse non risiede nell’assenza di giudizio morale; anzi, il contrario: sta proprio nella diffusa ed elegante critica riservata a Lydia Tár e a tutti i personaggi principali del film: a Francesca Lentini (Noémi Merlant), assistente personale di Tár, che denuncia le nefandezze della direttrice solo nel momento in cui le viene declinata la possibilità di gestione della Filamornica; alla moglie Sharon Goodnow (Nina Hoss) in grado di rinfacciare a Tár il supporto riservatole, a livello economico e sociale, per una vita; ai collaboratori diventati sconosciuti o carnefici.
E in questo Tár ricorda il tragico nella sua accezione più classica, contraria a ogni forma di bigottismo reazionario. Ogni personaggio rappresentato, infatti, sconta il binomio apollineo e dionisiaco. Le conseguenze, poi, sono diverse per ognuno. Ma a prevalere in tutti è quella parte dell’anima riservata allo slancio vitale, un’intraprendenza destinata a diventare condanna alla disperazione – sia essa lavorativa, personale o morale – nel completo abbandono della razionalità e del pensiero critico verso quello che si è e quello che si fa.
Allora Tár diventa uno di quei film meravigliosi, perché ci mette davanti al terribile senso di perpetuo tremore che contraddistingue le nostre vite quando proviamo a slanciarci in questa complicatissima e dissestata modernità, fino a metterci davanti a un dubbio irrisolvibile: forse che se proviamo veramente a inseguire i nostri desideri e ci arriviamo, a un certo punto ci ritroveremo inesorabilmente a peccare di un pericoloso delirio di onnipotenza?