Babylon – l’elefantiaca frenesia de-generatrice di Chazelle
Estremo. Eccessivo. Edonistico. Ci sono elefanti e nani a Babilonia, serpenti e veleni, sogni e sesso. Benvenuti nella Hollywood di Damien Chazelle, accomodatevi all’ombra delle rovine del cinema muto e preparatevi all’avvento del sonoro: tra divismo, isteria ed erezioni vi sentirete sicuramente spossati al termine delle sue mastodontiche tre ore e un quarto, ma Babylon promette di sussurrare agli impavidi che sapranno attendere fino all’ultimo vorticoso giro di giostra quale sia il destino di quella sfavillante Torre di Babele chiamata Cinema. Non vi sembra valga la pena sopportare il senso di vertigine?
Un’opera narrativamente logora, prolissa, storta, di cui è assai complicato afferrare l’intreccio. Nessuno dei suoi numerosi personaggi ne detiene il cuore. Gli uomini e le donne che animano la Babilonia hollywoodiana di Chazelle sono corpi prestati al cinema, nessuna introspezione, nessuna profondità. Sono marionette nelle mani di un sistema, non possono, e molto spesso non vogliono, svestirsi dei costumi di scena. Molti dialoghi restano confusi, talvolta persino pretestuosi. Molte scene appaiono fuori contesto, estranee, come schizzate fuori dalle crepe di un pavimento malridotto che fatica a contenere la violenza dell’inferno che impazza sotto i nostri piedi. Eppure al concretizzarsi di ogni suo difetto Babylon acquista vigore. Come un mostro che seduce all’accrescere delle sue deformità. Perché è il carattere con cui si muove agilmente tra l’orgia di bellezza e il cattivo gusto, tra la bramosia dell’arte e la depravazione, è l’eccitazione con cui si fa l’amore col cinema che rende Babylon un film che deve essere visto.
Una mastodontica disamina sull’evoluzione del cinema, sulla sua prepotente forza di attrarre a sé chiunque si imbatta nella malia del set, sulla sua brutale perversione di sorseggiare fino all’ultima goccia il sangue di chi sogna i riflettori. Una storia di ambizione, un racconto di folgorante ascesa e prevedibile declino, un’epopea di celebrità giunta al tramonto: le star del muto, dopo aver conosciuto la Hollywood degli eccessi, della grandezza, della fama, devono affrontare la bestiale avanzata del sonoro, una creatura prodigiosa che cancellerà il passato plasmando un’era cinematografica del tutto nuova.
Ma questa è solo la cornice foderata d’oro di un quadro molto eterogeneo. Babylon contiene molti film al suo interno. Un avvicendamento fantasmagorico di luci, colori, stili, corpi, che si intrecciano in modo sfrenato. Purtroppo in alcuni casi il vortice di suggestioni corre così velocemente da tramutare il groviglio in una matassa impossibile da districare, ma, in fondo, al rientro da una meta esotica è bene avere memoria del sole rovente che ci ha scaldato e non delle lunghe ore trascorse in fila al terminal prima del decollo.
Perché Babylon è senza ombra di dubbio un film isterico. Ma è anche molto di più. È il felliniano Jack Conrad (Brad Pitt) che si crogiola nella sua dolce vita, masticando italiano, donne e lirica. È Nellie LaRoy (Margot Robbie) svestita di rosso fiammante, bellissima e licenziosa come un angelo infernale. È Manny Torres (Diego Calva), che nella smodata Babele di primissimi piani, carrellate, Italian Shot alla Sergio Leone, denaro, droghe e speranze dai colori languidi, insegue il successo. È James McKay (Tobey Maguire), truccato alla Bela Lugosi nei panni del famoso Conte di Transilvania, che custodisce vizi e difformità sotto chiave, in buie cantine, guardiano di un depravato circo degno di un grottesco horror spagnolo in stile Álex de la Iglesia.
Babylon è l’action che imperversa durante le feste sfrenate, è il ritmo che rallenta con le prime luci dell’alba quando gli invitati si avviano verso casa su gambe intorpidite dagli eccessi, è il drama di chi si autodistrugge, è l’horror della depravazione di un sistema che pretende di comprare i propri sogni viziati investendo nel cinema, è il western in cui la nobile arte e l’abietto denaro duellano da sempre maneggiando armi impari.
Il gigantismo di Babylon è ancor più frastornante non appena si realizza che l’enorme sovrastruttura si ostina fino alla fine a evitare di aggrapparsi a qualsiasi sorta di sostegno, a un qualsiasi cardine narrativo. Chazelle non si affeziona a suoi personaggi come aveva fatto in La La Land, ma in questo caso li sovraespone, li porta a uno stato di eccitazione macchiettistica, asporta loro un pezzetto di cuore. Ritmo, frastuono. Ancora, più veloce. Babylon è un film che strappa via le radici a ciò che crea, privo di ambizioni nostalgiche. Ma è attraverso l’annientamento del cinema, al contenuto estirpato, ai corpi attoriali privati del loro spessore, che riusciamo a intravedere in fondo, dietro all’ingombrante set, il cinema che continua ad ammaliare il pubblico in sala.
Dopo l’impetuoso cambiamento che ha investito il cinema nel passaggio tra muto e sonoro, aspetteremo il 1952 per risorgere dal senso di stordimento provocato dalla sbornia di inquadrature e stili. Ci accomoderemo accanto al personaggio di Manny, l’archetipo dell'”outsider”, lo strumento di storytelling perfetto con cui condividere una dolce commozione sulle note di Singin’ in the Rain, e ci ri-approprieremo del cinema, tenuto fino a quel momento in ostaggio dalla frenesia de-generatrice di Chazelle. Il cinema è vivo, è nostro, sempre ammaliante e distruttivo, più tecnologico mai meno autentico.
È un vero peccato che Chazelle abbia deciso di concludere queste colossali coraggiose tre ore e un quarto con un ultimo vertiginoso carosello, questa volta prevedibile e fastidiosamente nel suo stile, in cui si autocompiace nel ripercorrere l’essenza del cinema in un montaggio frenetico, abbandonandosi a un eccesso didascalico per nulla necessario.
L’ultimo film di Chazelle è la prosecuzione di un racconto cominciato con Whiplash quasi dieci anni fa. Anche qui tutto ruota attorno alla passione, alla vitalità animalesca di cui l’arte si nutre, alla necessità carnale di appagare la vocazione artistica che alcuni sentono consumarsi dentro. L’arte per il regista è esplosione, energia, elettricità. Ciò che rende Babylon piacevolmente arrogante, dissomigliante, ciò che lo rende migliore, è il coraggio di scadere nel cattivo gusto. L’audacia di scavare nelle viscere, di provocare la nausea, di solleticare l’assurdo.
La castrazione artistica del codice Hays negli anni ’30 e della cancel culture oggi, l’inclusione e l’esclusione forzate di ciò che si ritiene idoneo o inappropriato, o meglio redditizio o infruttuoso, le regole imposte dal sistema-cinema sono tutte lì, nell’insudiciata zona d’ombra tra i riflettori del set e le volgarità degli inferi.
Se l’intento di Chazelle era quello di mostrarci il funzionamento dell’ingranaggio, scevro da lubrificanti imbonimenti, è assai utile che abbia mescolato oro e merda, nani ed elefanti, turbamenti e fascino. Chazelle firma uno dei titoli più interessanti, frenetici e divisivi di questo 2023. Babylon è caos puro, e per quanto assurdo, funziona proprio per questo.