The Fabelmans – il titanico omaggio di Spielberg a se stesso
The Fabelmans, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale italiane dal 22 dicembre, non solo è la pellicola più intima del regista de “Lo squalo” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” ma anche forse il suo miglior film degli ultimi vent’anni. O così dicono.
Un film che custodisce nei suoi sognanti fotogrammi magia, sbigottimento, scoperta. Tutta la spietatezza del cinema si affolla negli occhi del giovane protagonista Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle). L’uomo delle favole, questo il nome che il regista a 75 anni sceglie di assegnare al ricordo del suo io, ragazzetto inesperto di vita e specialista di fantasie. Attraverso i suoi occhi sgranati, eccitati e turbati, rivediamo lo scontro tra il treno dei circensi e l’auto dei banditi de “Il più grande spettacolo del mondo” (1952 – di Cecil B. De Mille), precipitiamo nel fascino western de “L’uomo che uccise Liberty Valance” (1962 – John Ford), comprendiamo quanto il Cinema sia una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte.
Il piccolo Sam a sette anni prova un improvviso terrore davanti al primo film visto al cinematografo. L’incidente ferroviario dentro allo schermo è così brutale da non lascargli scampo: continuerà a sentire l’asprezza del suono della ferraglia, a rivedere le splendenti scintille delle grandi ruote che deragliano. Avrà l’urgente necessità di “controllarne” il ricordo servendosi di un trenino elettrico e una cinepresa, di rivivere il sogno meraviglioso dell’esperienza cinematografica, l’unico sogno che consente di tenere gli occhi aperti, spalancati. La passione per il cinema non lo abbandonerà più, le sorelle e i compagni di scuola diventeranno protagonisti dei suoi esordi amatoriali, scoprirà come costruire realtà alternative ma anche quanto il cinema possa rivelare ciò che di vero è sempre sfuggito agli occhi.
La grandezza di The Fabelmans è tutta nella forma. L’abilità indiscussa di Spielberg risiede da sempre nella capacità di mescolare cinema autoriale a cinema popolare e, grazie anche al lavoro di Janusz Kaminski, storico direttore della fotografia di Spielberg, la modesta originalità della storia trova nella sua incredibile e raffinata presentazione registica il giusto, e più che necessario, bilanciamento.
In effetti nonostante la durata impegnativa di due ore e mezza il film scorre in maniera deliziosamente piacevole. Non soffermandosi sul suo valore simbolico, autobiografico e metacinematografico, il nuovo film di Steven Spielberg riesce a coinvolgere grazie alla sapiente gestione del ritmo e dei registri narrativi – la commedia è senza dubbio quello più riuscito.
Eppure è proprio quando si distoglie l’attenzione da ciò che Sam Fabelman costruisce dentro lo schermo e ci si sofferma su quanto accade attorno che la fatica moralista spielberghiana fa capolino, guastando non di poco la festa dell’uomo delle favole.
Andare oltre a quei sogni affidati a una bobina, srotolati, rimandati indietro e poi fatti avanzare, oltre a quei fotogrammi bucherellati per realizzare un bagliore inedito, un effetto speciale a costo zero. Ogni frame nasconde un segreto e il fascino di questa scoperta è così seducente che il nostro sguardo dovrebbe non indagare oltre.
Perché più in là, fuori dallo schermo, la povera Michelle Williams è costretta a tendere ogni nervo, ogni muscolo di quel viso incorniciato da un rigoroso quanto buffo caschetto biondo per portare un po’ di vivacità al ruolo della madre Mitzi. Un personaggio sprecato in piatte conversazioni da middle class, drammaticamente perso ad inseguire il disegno di un carattere folle, seducente ed egoisticamente artistico che Mitzi non possiede. Non è una madre manchevole, non è una donna dissennata, non rende i Fabelmans una famiglia disfunzionale. È solo una donna infelice, che non ha raggiunto il successo artistico che avrebbe voluto e ha incontrato l’amore al di fuori del suo matrimonio.
Forse per la prima volta vediamo Williams, un’attrice molto capace, spinta verso momenti di recitazione quasi clownesca. E ciò accade perché Spielberg mostra le trasgressioni di una donna insoddisfatta e la successiva separazione dei genitori (dopo che Mitzi cerca ostinatamente per anni di rispettare il ruolo di madre e casalinga fedele) come fosse una tragedia degna della grande opera.
Il più grande oltraggio che la famiglia Fabelman sembra subire è l’appartamento non proprio attraente in cui sono costretti temporaneamente, in attesa che la loro splendida casa californiana venga ultimata. Nulla di davvero sconvolgente, nulla di miseramente doloroso. Persino il bullismo subito dal giovane Sammy ad opera di atleti fanatici antisemiti è illustrato come parodistico. Il cinema di Sammy è così meravigliosamente seducente da offrire al giovane, in occasione del filmato scolastico di fine anno, una rivincita fenomenale, facendo sembrare uno dei due (Oakes Fegley) un perdente assoluto e l’altro (Sam Rechner) un vittorioso esponente della razza ariana in Olympia di Riefenstahl. E così, di nuovo, ogni trauma può essere controllato, ogni stranezza genitoriale può essere accantonata, ogni bullo può essere rimesso al suo posto. Tutto tranne quel divorzio che nella borghesia americana anni cinquanta risulta davvero indigesto. Questo l’unico vero “dramma”.
La sfarzosa marcia di drammi simulati di Spielberg incontra la sua conclusione imbattendosi in uno dei suoi idoli, John Ford, nella bella interpretazione di David Lynch. La questione è assai interessante, perché in fondo Lynch è l’antiSpielberg. Il loro incontro, il loro ritrovarsi in una sola stanza, Spielberg, Lynch e Ford, a parlare di orizzonti, di arte e di forma, tra domande colleriche e risposte abbozzate, è un modo perfetto per celebrare la grandezza del Cinema.
Spielberg con The Fabelmans ridipinge a mano libera la sua esistenza, tutta tesa a riplasmare e a assegnare un significato al caos. Sammy pensa (e si esprime) con le mani, stringendo la cinepresa, dirigendo gli attori, tagliando la pellicola, forandola, ispirato da un foglio bucato dal tacco della madre. Buchi e fessure da dove tutto è nuovamente osservabile. Il Cinema frammenta e restituisce a nuova vita.
Un vero peccato aver pedissequamente riproposto i classici topoi dell’abusata universale narrativa adolescenziale: le sorelle invadenti, gli strambi parenti, la conflittualità presente ma mai eccessiva con i genitori, i corridoi scolastici brulicanti di bulli, la cui crudeltà ha miracolosamente le ore contate.
L’incanto e la meraviglia negli occhi di Spielberg sono ancora intatti. Ma lo sguardo d’insieme abbraccia ancora una volta il sogno americano.