Oltre i confini dello sguardo, dove Gli orsi non esistono.
Il cinema di Jafar Panahi è uno degli esempi più fulgidi e contemporanei di un linguaggio popolare capace di permeare la complessità del suo “sguardo dentro lo sguardo” dei confini delle immagini, compiendo una verifica incerta dei loro meccanismi di finzione e di opposizione alle gabbie ideologiche del reale. No Bears (da noi distribuito come Gli Orsi non esistono) fa ancora questo quattro anni dopo il bellissimo Tre Volti. Vincitore del Premio Speciale della Giuria di Venezia dell’ultima edizione, l’ultimo film di Panahi sconvolge, commuove e innervosisce grazie alla sua presa di posizione contro quel sistema che a luglio lo ha condannato a sei anni di prigione, insieme ai registi Mohammand Rasoulof e Mostafa Aleahmad.
In esilio in un paesino al confine tra Iran e Turchia, il regista sta dirigendo da remoto la regia per un suo film con protagonista una coppia che cerca di fuggire dalla città attraverso dei documenti falsi. Nel paese in cui è gentilmente ospitato da una anziana signora, che lo mantiene insieme al suo figlio, incomincia a circolare la voce sospetta di una foto scattata da Panahi che ritrarrebbe insieme due giovani amanti, compromettendo così il matrimonio di lei con il ragazzo promesso dalla giovane età, secondo l’antica tradizione del paese. Panahi afferma di non aver scattato la foto eppure, nonostante il giuramento sul Corano, le tensioni tra i due giovani e gli anziani porranno il regista in una posizione scomoda, di vittima, testimone e carnefice di una paranoia collettiva che porterà inevitabilmente al sangue.
Come sempre protagonista di sé stesso e punto centripeto della narrazione, Panahi catalizza su di sé gli sguardi da parte della gente di paese, vecchi, giovani, donne e bambini. L’immagine sospetta l’ha scattata per davvero o è un semplice MacGuffin tramite il quale dare corpo e immagine alla metanarrazione? Panahi è insieme corpo, immagine e sguardo trainante degli eventi, o dell’illusione di avere il loro controllo. Demiurgo di una zona di confine, non semplicemente territoriale, ma sociale e narrativa: tra realtà e finzione, verità e bugie, successo e sconfitta, prigionia e libertà, tradizione e progresso, paese di provincia e città. Lo spettatore è chiamato in causa a organizzare questa catena di posizionamenti binari, l’insufficienza delle informazioni in suo possesso, e l’incapacità di arginare l’incombere del reale attraverso il cinema. Che sia con le parole o con la registrazione visiva, come nella scena del giuramento, il linguaggio adottato dal regista è l’unico strumento con cui si arrischia a mettere a repentaglio la sua vita contro le autorità iraniane, infiltrandosi tra le pieghe del sociale e scardinandone la psicologia e l’attaccamento alle proprie tradizioni, dietro alle quali vengono trascinate le nuove generazioni.
È un cinema necessariamente popolare in cui il potere metaforico delle immagini si fa cristallino, senza tuttavia cedere alla spiegazione grossolana della propria condizione. Dalla sua situazione di stallo Panahi compie una meditazione dei suoi movimenti, a piedi come in macchina, con l’immancabile primo piano dallo specchietto centrale, passando alla soggettiva della macchina che prosegue lenta e cauta lungo le strade sterrate delle colline brulle dove si aggirano gli orsi inesistenti. Nonostante questo c’è sempre il rischio di non vedere e quindi di sporcare di polvere il proprio mezzo di spostamento, ancora pericolosamente moderno per la percezioni di un paesino di provincia e che potrebbe inevitabilmente attirare attenzioni. Allora il cinema è resa, è un colpo di freno contro ogni fuga di sguardo che si fa indagine della propria dimensione etica e politica; dove ogni finzione è una frizione che stratifica i doppi livelli di meta-narrazione del film, come testimoniano le ultime bellissime sequenze del “finto film” girato da remoto, con l’inevitabile opposizione dello sguardo in macchina dell’attrice contro la pretesa inutile di un lieto fine in Europa.
Dalla propria persecuzione nella vita reale, Panahi desume uno strumento per meditare sul nostro rapporto con l’eterodossia delle immagini, un invito a leggerle oltre il confinamento dello schermo, fuori dal loro campo, fuori dalle zone d’ombra dove non arriva la luce dei fanali, dove non arriva l’occhio vittima-e-colpevole del suo regista. E quando arriva il momento di s-confinare oltre i territori del proprio paese, oltre la propria reclusione, sa quando arrendere lo sguardo per raggiungere e scontrarsi contro una più profonda e “libera” presa di consapevolezza del proprio ruolo contro il mondo, per il mondo.