Amsterdam
David O. Russell dirige un cast incredibile in un film incredibilmente verboso e moralista.
Il regista di American Hustle per il suo ritorno ha imbandito una poderosa scorpacciata cinefila: un comparto tecnico gourmet da veri intenditori (tra cui spicca il direttore della fotografia tre volte premio Oscar Emmanuel Lubezki) e una mescolanza di ingredienti narrativi tra ucronia e giallo macchiato con tinte noir, il tutto servito in tazza grande (le due ore e un quarto di durata rendono la narrazione sin troppo diluita). David O. Russell riunisce alla sua tavola una corte di commensali tra le più sensazionali degli ultimi anni (nel cast Christian Bale, Margot Robbie, John David Washington, Rami Malek, Robert De Niro, Anya Taylor-Joy, Michael Shannon, Taylor Swift).
Tuttavia Amsterdam è un’opera superflua. Come se nella preparazione del banchetto ci si fosse attardati nei preparativi, sprecati nell’acquisto di cibo esotico che non si sa come cucinare. E mentre il padrone di casa si sta ancora domandando se il colore della tovaglia ben si intona con quello del mobilio, gli ospiti suonano già alla porta. Non avendo a disposizione granché da mettere sotto i denti, i convitati finiranno per ubriacarsi troppo presto, lasciando che le parole escano dalla loro bocca senza riuscire a dire nulla di davvero interessante.
E così Amsterdam, che avrebbe dovuto galleggiare abilmente tra il dramma storico e la commedia brillante, finisce per essere un gran galà a cui si alza il gomito per noia. Le gag comiche create non sono mai veramente divertenti, e le riflessioni suggerite incapaci di discostarsi dalla retorica più gretta. Russell appare troppo impegnato ad allestire una sfavillante vetrina al suo spropositato cast per rendersi conto che nulla di ciò che accade sullo schermo può davvero interessare lo spettatore.
Nulla possono gli attori se i personaggi scritti per loro non collaborano alla buona riuscita della narrazione. Tutti gli interpreti appaiono sopra le righe, annegati nel vano tentativo di coniugare toni surreali a sfumature drammatiche, sprecati in densi dialoghi infiniti.
Anche le soluzioni di regia – alcune delle quali davvero pigre, come l’uso della voce fuoricampo – influiscono sulla vacuità della narrazione. Russell impedisce ai suoi personaggi di appartenere alla storia che raccontano, li soffoca in una sfarzosa scenografia bohémien, li ingabbia nelle luci di Lubezki che si limitano ad accentuare le atmosfere del noir anni ’40 e li annienta definitivamente costringendoli a ricorrere a flashback nel flashback, lasciando che l’insistita voce-off sveli incessantemente il “mistero” nascosto nell’intreccio, privando lo spettatore dell’unico aspetto che avrebbe potuto stimolare un timido coinvolgimento.
Amsterdam inizia con un avvertenza. Il film è basato su un fatto storico vero, e segue le vicende del medico Burt Berendsen (Bale), l’avvocato Harold Woodman (Washington) e l’artista Valerie Voze (Robbie). I tre, legati da un indistruttibile legame di amicizia si ritrovano a indagare sulla morte di un generale conosciuto ai tempi della Grande Guerra e restano coinvolti in un complotto che mette a rischio le loro esistenze: a New York si stanno muovendo ricchi filonazisti impegnati a organizzare un colpo di stato ai danni di Roosevelt. Si tratta del cosiddetto “Business Plot” – del fatto realmente accaduto si era anche occupato Philip Roth con il suo libro “Il complotto contro l’America”, da cui è stata tratta una serie tv HBO. Troveranno un alleato nel nerboruto generale in pensione Dillenbeck (Robert De Niro), che farà da esca per i congiurati.
Se Amsterdam avesse mantenuto per tutta la sua durata – indiscutibilmente eccesiva – un mood molto più fumettoso restando volutamente sopra le righe, senza pretendere di elevarsi a narrazione con ammiccante morale finale, probabilmente ne avrebbe giovato. Il film, invece, insiste con il proporsi figurazione del vero, tanto da sovrapporre anche un discorso del vero generale Dillenbeck a quello interpretato da Robert De Niro – crollando inevitabilmente sotto il peso insostenibile della sua rappresentazione troppo “d’intrattenimento”.
Sembra utile sottolineare come il film, sforzandosi di innalzarsi a riflessione storico-politica che non sembra adatto a sostenere, finisce con il suggerire che gli Stati Uniti fossero in quegli anni l’ultimo baluardo della libertà dei popoli rimasto. Mentre nel resto del mondo imperversavano nazisti e fascisti, lì l’uomo bianco, conservatore, dichiaratemene repubblicano, si faceva custode dei valori della Nazione salvandola dalle pericolose infiltrazioni dittatoriali europee. Lì regna il sogno americano, e guai a chi prova a scalfirlo.
Amsterdam si rivela in questo modo il riflesso di quella che è diventata ormai l’industria dei blockbuster che, incapaci di rinnovarsi, sembrano tornati a una logica produttiva davvero degli anni ’30 e ’40, dove le star e i buoni vecchi valori americani sono le uniche cose che contano.
Amsterdam è un film stucchevole, logorroico e conformista. Il film avrebbe voluto appassionare con le sue camaleontiche interpretazioni e farsi inno di libertà per i sognatori di tutte le epoche, ma l’unico intrattenimento che resta è rimirare come, a volte, nemmeno 80 milioni di dollari di budget valgono il prezzo del biglietto.