Lo slasher
o dell’edificazione del carnefice
Se esiste un (sotto)genere che ha eretto la figura del carnefice — e, come vedremo, il suo sguardo moralistico — a mito fondante della contemporaneità, rendendolo un archetipo maligno perfettamente inserito nel nostro attuale immaginario collettivo, ebbene questo sottogenere è lo slasher, che, per quanto affondi le sue radici nel cinema horror (di cui è una declinazione piuttosto fluida, per quanto codificata) degli anni ’70 e, soprattutto, ’80, riuscendo comunque a ripensarsi nel decennio successivo, si qualifica oggi ancora come una lettura probabilmente indiretta ma decisamente attuale del presente.
Soprattutto se pensiamo al (relativamente) recente slittamento semantico di tutto quell’universo narrativo — seriale sopratutto, ma non solo — che in ambito crime ha deciso, in maniera più o meno fortunata e consapevole, di spostare la propria attenzione, e a volte il proprio punto di vista, dagli eroi che si occupano di cercare, catturare, punire i cattivi di turno, ai cattivi stessi, ai carnefici, a coloro che il male invece lo agiscono.
Si pensi, per i casi migliori, a due prodotti di cui parleremo approfonditamente in questo stesso mese: da un lato Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer (Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story, Ryan Murphy e Ian Brennan, Usa 2022), la minserie di dieci puntate dedicata al cosiddetto mostro di Milwaukee, che fin dal titolo opera una precisa scelta di campo, e dall’altro Wanna (Alessandro Garramone e Nicola Prosatore, Ita 2022), la docu-serie che edifica il proprio racconto mettendo al centro della narrazione le parole oscene della stessa Wanna Marchi. Due prodotti ancora più difficili da maneggiare, da questo punto di vista, per il dialogo diretto che intrattengono con il reale, come dimostrano le numerose contrarietà che hanno suscitato.
Ma oggi, qui, vogliamo parlare di carnefici “immaginari”, posto che la differenza sia davvero così marcata. Allora è opportuno sottolineare che, se il termine slasher può non dire granché a molti, nonostante la serie omonima e i tanti aggiornamenti — non solo seriali — degli ultimi anni, forse di più potranno suggerire i nomi di Faccia di cuoio (Leatherface), Michael Myers, Jason Voorhees, Freddy Krueger, o titoli come Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, Usa 1974) e i sequel, remake e reboot successivi, Halloween – La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, Usa 1978) e relativa saga, Venerdì 13 (Friday the 13th, Sean S. Cunningham, Usa 1980) ed epopea seguente, Nightmare – Dal profondo della notte (Nightmare on Elm Street, Wes Craven, Usa 1984) e consequenziale numerazione.
Nomi, i primi, che sono divenuti antonomasie di carnefici, di cattivi, di villain immortali e invincibili; titoli, i secondi, che condividono, in gradazione progressiva meno sfumata, una serie di elementi frequenti, che, oltre a rappresentare regole e codici del genere, ne strutturano anche una forma narrativa di certo in parte ricorrente, ma anche funzionale alla traduzione del contesto in cui sono stati realizzati.
Non ci soffermeremo però sulla storia di questo sotto-genere, se non per segnalare come abbia un antesignano italiano, un capolavoro, ossia Reazione a catena (Mario Bava, Italia 1971) di quel Mario Bava che tanto dovremmo celebrare e che invece dimentichiamo ogni volta che possiamo. E se Reazione a catena può segnare l’inizio, come dire?, “tecnico/creativo” di questo sotto-genere, ecco che invece quello “ideologico/filosofico” dovrebbe essere rintracciato in un film che forse prima di tutti gli altri ha esercitato la funzione mitopoietica del cinema per regalarci un carnefice che non sarebbe mai più uscito dai nostri incubi e dalle nostre pulsioni: il Norman Bates di Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, Usa 1960).
Nella scena finale del capolavoro del regista britannico — e non mi frega un cazzo se è uno spoiler, se non conoscete Psyco siete delle bestie senza dio — Norman Bates, in un monologo terrificante, finisce per guardare dentro la macchina da presa, per guardarci negli occhi, per restituirci il suo sguardo, che è quello del carnefice (chiedendoci per altro se sia davvero così diverso dal nostro).
Ecco allora che forse, in un ideale controcampo rispetto a Psyco, la soggettiva che apre Halloween, il film che ha edificato strutturalmente lo slasher, in cui vediamo ciò che vede e che di agghiacciante fa Michael Myers, ci racconta — mentre lo facciamo con lui, mentre lo facciamo noi — di un’identificazione, di uno sguardo che è letteralmente lo sguardo del carnefice. La soggettiva è, nello slasher, un elemento narrativo ricorrente, è un passaggio di senso e un’attribuzione di complicità (siamo carnefici come spettatori, tanto quanto l’assassino stesso) abitati con una certa regolarità, e, almeno in parte, frutto del suo profondo moralismo.
Sì, perché lo slasher, come ci insegna Wes Craven nel franchise di Scream (id., Wes Craven, Usa 1996) — in un cortocircuito meta-cinematografico vertiginoso che parte da Nightmare, altro film fondante del pantheon dello slasher — ha delle regole piuttosto precise, ben riassunte da Pier Maria Bocchi nel seminale dossier n. 13 di Nocturno intitolato “Scary Movies”, regole su cui non ci soffermeremo dettagliatamente, ma che sono utili a comprendere il portato, il senso e il sotto-testo di questo genere. Per cui le attraverseremo senza enunciarle, ma in maniera funzionale al percorso che stiamo effettuando dentro lo sguardo del carnefice e la sua centralità.
Lo sguardo, quindi, dicevamo. Lo sguardo del carnefice, nello slasher, è quasi regolarmente filtrato fisicamente da una maschera. In un modo o nell’altro, il cattivo dei film che appartengono a questo sotto-genere cela il proprio viso alla vista, in un processo che certo lo rende senza identità, ma contemporaneamente ne esalta l’identificazione. Tutti i carnefici hanno un problema con l’alterità, con la presenza, l’assenza, l’accettazione, il rifiuto di essa.
Se Faccia di cuoio, protagonista di Non aprite quella parte, acquisisce la propria identità, facendosi altro da sé, indossando le maschere realizzate con la pelle dei visi delle sue vittime, diventando loro, appropriandosi delle loro malintese fattezze per nascondere, come per altro fa anche Jason in Venerdì 13, la propria sfigurata e ributtante fisionomia, ecco che invece Michael — che riesce a uccidere la prima volta solo se infantilmente mascherato — nasconde poi il proprio viso dietro una maschera bianca priva di tratti somatici e di differenze, anonima, che diviene, nel suo essere de-visificato, una reliquia sindonica, tanto che il volto di Michael — come quello di Jason — è la sua maschera. Soprassedendo sul portato politico di tale scelta, ciò che è opportuno sottolineare è come, anche in questo senso, lo sguardo del carnefice divenga il nostro, almeno potenzialmente, e come sia il perno del nostro percorso.
Ne sia ulteriore e ultimo elemento di suggestione, il rapporto che lo slasher intrattiene con le vittime. La stragrande maggioranza di queste, sostanzialmente tutte tranne una, sono unicamente funzionali al body count, ossia la conta dei cadaveri. In questo senso, gli altri personaggi dei film che afferiscono a questo sotto-genere sono spesso tratteggiati in senso archetipico, nel migliore dei casi, o stereotipato, nel peggiore. Sono solitamente teenagers intenti a fare sesso, drogarsi, divertirsi o a contravvenire a qualche regola morale che una società benpensante ritiene indiscutibile. Tutti tranne una, la cosiddetta final girl, che è colei che riesce in qualche modo a salvarsi e ad arrestare la furia omicida del bruto, con il quale intrattiene spesso un qualche tipo di rapporto ancestrale o banalmente famigliare.
La final girl — sul ruolo della quale si potrebbe leggere, nell’evoluzione dello slasher, un interessante percorso rispetto alle questioni di genere — è stata a lungo immaginata come simbolo di verginità, colei che non merita di morire, perché non ancora corrotta. È assolutamente corretto — perché lo slasher, lungi dall’essere un genere reazionario e conservatore, racconta, rappresenta, è comunque immagine e simulacro di una società reazionaria e conservatrice — ma la cosa è più sfumata: non è vero che la final girl non faccia sesso (o non si diverta o non si droghi, per quanto sia il sesso a restare centrale, soprattutto nell’epoca dell’Aids), ma noi non lo vediamo, la sua sessualità non è mostrata, è nei modi che la final girl è differente. E sono modi — intelligenza, consapevolezza, attenzione, riluttanza al sesso — che la distinguono anche dalle altre figure femminili, nonché da quelle maschili, presenti nei film, profilando un “dialogo” reale con il carnefice, senza per questo assumere senso solo ed esclusivamente — ma anche — in relazione a lui.
Perché se è chiaro che una final girl è tale solo perché c’è qualcuno che sta massacrando una comunità, è altrettanto vero, però, che un carnefice è tale solo presupponendo non solo le vittime ma anche chi alla carneficina può, vuole e riesce a sopravvivere, come testimonianza; certo, scampando al massacro, la final girl costruisce probabilmente uno spazio di possibile innocenza, ma anche la conferma dei pregiudizi morali di una società aguzzina e seviziatrice, tanto che la sua vittoria sul carnefice non la renderà mai veramente libera, in termini di memoria e di sguardo.