Due canzoni consigliate da Billy: ’74-’75, The Connells – Part of the Band, The 1975
I pezzi di oggi parlano di una malinconia declinata in pochi minuti di suoni, parole, immagini. C’è qualcosa che accomuna queste canzoni, le melodie, i loro versi: sono la desolazione, lo spaesamento, il salto continuo tra la dolcezza del passato e l’amarezza del presente.
C’è un programma musicale in Germania, 2 Meter Sessions, che dal 1987 ospita gruppi musicali in un confortevole studio di legno scuro. L’atmosfera calda, il clima riservato, la vicinanza tra i musicisti e il fatto che, disposti a cerchio, si possano finalmente guardare direttamente negli occhi, hanno contribuito negli anni a tirare fuori da quelle sessioni pezzi di storia della musica live.
2 Meter Sessions ha un canale YouTube, ricco e prezioso.
Il 25 giugno 1995 i The Connells entrano negli studi delle 2 Meter Sessions e registrano, audio e video, ’74-’75 (da Ring, 1993, TVT). Una ballata acustica, leggera, un pezzo che, rifacendomi anche al video ufficiale girato alla Needham B. Broughton High School di Raleigh in North Carolina, prende la malinconia da annuario scolastico ritrovato dopo anni di oblio e la traduce, spogliandola di ogni banalità, in un soft-rock nostalgico e amorevole. Nel 2015 è uscito un nuovo video della canzone con gli stessi protagonisti dell’originale, immortalati vent’anni dopo. Un salto audiovisivo tra chi si è sposato, chi ha perso i capelli, chi ancora sorride, chi non c’è più.
Insomma, i The Connells fanno una gran cosa: prendono la semplicità apparente della nostalgia e la trasformano in uno strumento per raccontarti che il tempo passa e non torna più. C’è molto poco da fare.
Primo singolo di Being Funny in a Foreign Language (2022, Dirty Hit) in uscita a ottobre, Part of The Band accoglie con leggerezza il filo rosso che la lega con le tematiche che i The 1975, e più in particolare Matty Healy, hanno trattato negli ultimi due lavori: la bisessualità, la dipendenza da eroina, la narrazione dialogica in un flusso di coscienza che parte da una giovinezza ormai perduta per arrivare a un presente fatto di fama, soldi e vuotezza. Quello che può sembrare un vecchio stereotipo del maledettissimo rock n’ roll non è altro che un pretesto per esaltare doti narrative uniche nel panorama pop a noi contemporaneo.
I nostri all’inizio del pezzo non ci sono, se non la voce di Healy, ma lasciano spazio a un tappeto di violini che richiama Eleanor Rigby, qui trascinata nella narrazione di una post modernità segnata dalla pandemia. Se McCartney si chiedeva da dove venissero le persone sole, oggi la generazione dei millenials, proiettata nella vita di Healy e nel suo cerebralismo a volte esagerato, prova a comprendere quando mai, all’improvviso, ha iniziato a sentirsi isolata.
Il pezzo è bello – non innovativo, però originale – di una piacevolezza che entra piano piano, ascolto dopo ascolto. Il video, invece, è di un altro livello. Dentro chiari riferimenti alla morte deambulante di Bergman, al bagaglio emotivo portato sulla schiena, che ricorda le cianfrusaglie scomposte del gigantesco e gonfio castello errante di Howl, il tutto condito da una fotografia in bianco e nero molto diversa da quella più limpida e saturata che ha contraddistinto alcuni dei primi video del gruppo: adesso la grana è più marcata, l’autorialità si sente, la maturazione artistica, a livello visivo, sembra essere avvenuta.
Le due canzoni parlano con disarmante sincerità dell’inadeguatezza derivata dallo scorrere inesorabile del tempo, una consapevolezza sempre più pressante che richiama, alla fine, la domanda che si faceva Tennessee Williams in Il treno del latte non ferma più qui:
“Non ti ha mai fatto pensare che alla fine la vita è tutta memoria, eccetto quel preciso momento del presente che ti passa davanti così veloce che è impossibile coglierlo?”