Stranger Things: la cosa più strana è che me la sono persa per tutto questo tempo
Questo articolo comincia con me che faccio un mea culpa grande quanto una casa: ho visto la prima puntata di Stranger Things domenica 12 giugno 2022. No, non intendo la prima puntata della quarta stagione, intendo proprio la 1×01. Mentre il mondo si evolveva, andava avanti e parlava di quanto questa serie fosse un capolavoro, io restavo indietro persa nelle mie convinzioni secondo cui la fantascienza non fa per me, i mostri non mi piacciono e non mi frega niente di vedere queste serie così inflazionate. Era una cazzata. Che poi, tra l’altro, avevo fatto una cosa molto simile con Game of Thrones, e ora per poco non mi tatuo Stark in fronte.
Ma torniamo a noi. Dicevo, ho iniziato Stranger Things in netto ritardo rispetto a tutte le persone sagge che esistono sulla faccia di questa Terra – e anche nel Sottosopra, ovviamente -, l’ho finita poco più di un mese dopo e adesso vivo una fortissima sindrome da abbandono. Dov’è Dustin? E Steve? E Robin? Dove sono tutti i miei amici? Quando potrò rivederli? Questi dubbi mi tormentano e non posso fare a meno di pensare a quanto io sia stata stupida ad aspettare così tanto prima di entrare nel loro mondo. Ma adesso ci sono, e me la godo.
Stranger Things tra passato e presente
Stranger Things è una di quelle serie che ti prendono dal minuto uno, e tu ci sei dentro fino al collo prima ancora di riuscire a dire “wow, bello il primo episodio, quasi quasi ne guardo un altro”. L’ambientazione negli anni ’80 – che non ho vissuto ma per i quali ora invidio ancora di più mia madre – nella tranquilla cittadina di Hawkins in Indiana porta con sé una buona dose di sana nostalgia e un pizzico di invidiabile vintage. La narrazione non passa solo attraverso le storyline dei personaggi ma anche attraverso gli abiti (ho casualmente ritirato fuori delle Reebok che pensavo avrebbero preso polvere ancora per qualche anno), lo stile e una colonna sonora incredibilmente ricca, elementi che non fanno solo da sfondo alla vicenda ma ne costituiscono parte integrante. Quello che sembra il classico contesto stereotipato americano, in cui lo sceriffo preferisce mangiare donuts a indagare per risolvere il caso di un bambino scomparso, ci mette poco a trasformarsi in un ambiente popolato da facce amiche che cercano più e più volte di salvare la loro città e il mondo intero. E noi ci mettiamo altrettanto poco a sentircene parte.
Se la prima stagione di Stranger Things ha costituito le basi di un cult, la seconda ne ha confermato la direzione e la terza ha sancito il successo globale, con l’ultima stagione si compie un passo ulteriore, determinando un futuro ben poco roseo per Hawkins e i suoi abitanti e dando alcune spiegazioni relative a un passato sul quale pendevano ancora troppi dubbi. La quarta stagione di Stranger Things è infatti, con le sue nove puntate alcune delle quali sono dei veri e propri film, un continuo viaggio nel tempo e nello spazio. Lo percorriamo principalmente attraverso il percorso di Eleven, che per recuperare i suoi poteri deve affrontare dei ricordi talmente forti da essere andati persi e il ritorno di un padre che è tale solo per definizione. Ma lo facciamo anche attraverso le scoperte di Robin e Nancy, che arrivano fin dentro le mura di un ospedale psichiatrico per capire le origini del male che sta per devastare il mondo. E, ultimo ma non ultimo, lo facciamo tornando nel Sottosopra, dove il tempo, per qualche ragione, è fermo al giorno del rapimento di Will, al giorno in cui tutto è cominciato.
Ma si fa anche di più. Come nelle precedenti stagioni della serie, i protagonisti sono divisi in gruppi che, ognuno a modo suo, contribuiscono in modo inquietantemente perfetto alla riuscita di un piano generale del quale loro stessi non sono pienamente consapevoli. Stavolta però si va molto lontano dai confini di Hawkins. Se infatti Will, Jonathan, Mike e Argyle si mettono in marcia per un road trip che li porta a girare gli Stati Uniti in lungo e in largo, Joyce e Murray fanno di peggio e arrivano fino all’Unione Sovietica per salvare Hopper e combattere una Guerra che è tutto fuorché Fredda. E tutto ciò ci ricorda che i mostri non sono i soli mostri.
La complessità dell’animo umano
Stranger Things ci dimostra, in questa stagione più che in tutte le altre, quanto siano variegate le sfaccettature dell’animo umano. Come ci aveva già ricordato Billy sul finale della stagione tre, possiamo essere degli eroi, ma possiamo anche essere delle bestie. La caratterizzazione dei personaggi è uno dei punti di forza della serie fin dal principio – e ciò che forse più di ogni altra cosa ci permette di affezionarci subito anche ai personaggi più recenti – ma questa stagione ci porta nel profondo di storie di vita e personalità nelle quali possiamo immedesimarci. Siamo un po’ Will con il cuore spezzato da un amore impossibile nei confronti di Mike, un sentimento prima appena accennato che diventa palese e ci fa soffrire con lui, perché nella friendzone, prima o poi, ci finiamo tutti. Siamo un po’ Max che deve affrontare non soltanto la sua nuova vita senza Billy, ma anche dei sensi di colpa che non la fanno dormire la notte e che la rendono facile preda di Vecna. Siamo un po’ Eddie, diverso dalla massa, un eroe antieroe che scopre in se stesso un coraggio che non immaginava di avere. Ma la verità è che la lotta non è solo quella tra umani e mostri del Sottosopra: la vera battaglia è quella tra le persone e i loro simili.
Chi è il vero mostro?
Mai come in questa stagione, infatti, le creature che popolano il Sottosopra sono solo una parte, in alcuni casi addirittura marginale, delle bestie contro le quali bisogna combattere. Ci sono i russi che odiano tutto ciò che sa di Occidente, ma contrabbandano burro d’arachidi come se fosse oro. Ci sono gli americani, divisi al loro interno talmente tanto da cominciare a torturarsi a vicenda. E ci sono gli abitanti di Hawkins, pronti ad armarsi fino ai denti e a organizzare ronde per combattere proprio contro chi in quel momento sta tentando di salvargli il culo. Che strani che sono: basta salire su un pulpito e fargli un discorsetto additando il diverso di turno per aizzarli contro un nemico comune che distoglie la loro attenzione dal vero problema. Per caso vi ricordano qualcuno?
E poi c’è Vecna, la rappresentazione del fatto che il male non deve essere cercato poi tanto lontano da noi. Le origini di un mostro che si nutre delle debolezze e delle paure umane non sono in chissà quale meandro segreto del Sottosopra, ma in una persona all’apparenza normale, quella in cui sembrava addirittura essere riposto il germe della salvezza. Il mostro non ha necessariamente una faccia a forma di fiore assassino: può avere due occhi, due braccia e due gambe, può essere stato il figlio di qualcuno, il fratello di qualcuno. In un universo narrativo nel quale esiste una dimensione parallela piena di creature inquietanti, c’è bisogno dell’intervento delle persone per far sì che queste si aizzino contro l’umanità. Siamo noi i primi sabotatori di noi stessi. Ma per fortuna i miei coraggiosi amici di Hawkins sono pronti a salvare tutti noi, dobbiamo solo aspettare la nuova stagione.