Grey’s Anatomy 18: di quel fascino decadente che ci tiene ancora qui.
Esordire nella riunione di redazione chiedendo di scrivere su Grey’s Anatomy è stato una sorta di coming out, lo senti al tatto quel timore nell’ammettere di seguire Ellen Pompeo da 18 stagioni e di avere alle spalle almeno 2-3 re-watch. Il giudizio morale pende sul collo come una spada di Damocle, e potrebbe non bastare la tua passione per il cinema d’essai a ripulire l’animo cinefilo da questa perversione.
Eppure, parlare di Grey’s Anatomy con uno sguardo critico è più complesso del previsto, perché la senti consumarsi dentro di te quella lotta titanica tra forze contrastanti. Da una parte c’è l’affetto per una serie che ha dato forma a un universo emotivo ed esperienziale che per un pubblico giovane era tutto da scoprire; penso al mondo delle relazioni e della sessualità al quale l’adolescenza si affaccia e che spesso non trova nessuno che se ne faccia carico. Dall’altra parte c’è, invece, l’oggettiva consapevolezza di esser davanti a un prodotto di media qualità, che fatica a far calare il sipario facendo lo slalom tra intrecci assurdi e rappresentazioni posticce di temi sociali estremamente attuali.
Dunque: cosa ci tiene ancora qui, nonostante il mondo intero intoni un corale e sentito “basta così”? Forse, un grande compromesso con noi stessi, dato da quella serena accettazione del fatto che non c’è nulla di male nel prendere da Grey’s Anatomy quel poco, pochissimo, che ancora riesce a dare.
Sono 400 gli episodi raggiunti con l’ultima stagione, e questo traguardo merita due parole. La diciottesima stagione è probabilmente la tappa propedeutica alla fine definitiva, è la meta-stagione in cui sradicamento e declino sono dei nodi tematici fondamentali attorno a cui riflette, è il momento in cui Shonda Rhimes e Krista Vernoff tematizzano questioni delicate per il pubblico statunitense, e che invece latitano nelle serie TV italiane di natura pop.
META-GREY’S ANATOMY
Se c’è un aspetto particolarmente interessante di questa stagione, è proprio il suo essere una meta-stagione. A questo giro, Grey’s Anatomy ha parlato di sé stessa attraverso l’epopea di un ospedale allo sbando e nel pieno della crisi che sta incrinando il programma di specializzazione più ambito degli USA, una struttura alle prese con i trasferimenti di medici portanti, tra cui la stessa Meredith Grey vogliosa di bazzicare nuovi lidi. È il momento del declino per il Grey Sloan Memorial Hospital: l’ospedale-eccellenza che ci hanno sempre venduto non esiste più, ora è un’auto provata dagli anni che deve fare i conti con quei problemi così comuni e ordinari che tanto caratterizzano la realtà fuori dall’universo della fiction ma che a Shondaland non sono mai stati di casa. E quasi non dispiace vedere rappresentata per la prima volta la fallibilità di un mondo che ci è sempre stato dipinto come infallibile ed eccezionale in ogni sua mossa.
Krista Vernoff, con questa stagione, ci ha parlato di una serie TV che arranca senza mai trovare il coraggio di chiudere definitivamente. Disfunzionale, è il termine usato nell’ultimo episodio dall’ispettrice incaricata di valutare il programma di specializzazione dei medici del GSMH, riferendosi al rischio in cui si incorre quando si lavora troppo a lungo nello stesso ambiente ormai troppo familiare. Disfunzionale può essere anche una serie che tira avanti perché ha un nome la cui fama precede e sopravvive alla sua reale qualità, ma che ha dalla sua parte i numeri dello share e un affetto costruito negli anni (molti).
Dopo una stagione intera realizzata attorno alla crisi del sistema sanitario durante la pandemia, questo esercizio di autocritica è forse una delle mosse più interessanti che la produzione potesse fare, riconoscendo con una certa franchezza un processo di invecchiamento in corso da tempo, nel quale trovare qualcosa da rappresentare senza inciampare nell’assurdo inizia a essere estremamente complesso.
La stessa Ellen Pompeo è al centro di questo meta-discorso: Meredith Grey ha finalmente l’opportunità di brillare altrove, di aprire un’altro capitolo della sua carriera – ciò che la sua persona Cristina Yang ha fatto 8 stagioni prima – ma non riesce e si ritrova anche lei a perdere qualche colpo in un fare nervoso e stanco, uscendo così da quell’aura di perfezione che la contraddistingueva.
La difficoltà di sradicarsi dai luoghi e dalle circostanze alle quali apparteniamo è il fulcro attorno al quale Vernoff prova a ragionare attraverso il personaggio della Grey. Sradicarsi dall’ospedale che l’ha formata e devastata allo stesso tempo, risulta agli occhi di collegə come l’abbandono della nave mentre affonda, un tradimento. Dal punto di vista del personaggio, è un processo rallentato da quel senso di responsabilità e dovere morale che spesso ci trattiene nell’andar via durante il caos, soprattutto se a tirarci dal braccio ci sono i ricordi di persone andate. Ed è così che Ellen Pompeo e Meredith Grey si esauriscono ancora una volta nei loro rispettivi ruoli, restando incagliate per anni e stagioni intere.
GREY’S ANATOMY PER IL SOCIALE
La sinistra italiana riparta da Grey’s Anatomy, verrebbe da dire, che col suo connubio liberal-pop porta sul piccolo schermo una serie di temi estranei al panorama italiano delle serie TV di natura pop. Ma andiamo con ordine.
Grey’s Anatomy ha sempre avuto la tendenza a tematizzare questioni calde di natura politica e socioculturale: l’eutanasia, l’omosessualità, l’odio razziale, armi, dipendenze e una manciata di altre questioni sulle quali repubblicani e democratici costruiscono campagne elettorali intere. Sempre attenta allo spirito del tempo americano, l’ha calato nei suoi episodi offrendolo al pubblico mescolato con le vicende sentimentali e lavorative dello staff, e con le storie dei pazienti. Nel 2005 era avanguardia, anche se celata e mai esplicita. Oggi ci può sembrare banale, ma il processo di (ri)scoperta individuale della dottoressa Callie Torres è stato emblematico per la comunità LGBTQI+ e per chi era alle prese con un coming out.
Nel 2022, invece, i problemi vengono chiamati per nome, pescati dal cesto delle ingiustizie sociali e lanciati negli episodi con una foga quasi nevrotica, uno dietro l’altro. Il risultato? Episodi che, avendo esaurito gli storici filoni narrativi ed essendo deboli sul fronte delle relazioni sentimentali da raccontare, cercano di costruirsi un profilo politico che parli a molti, che ottenga la simpatia dell’elettorato democratico, e che si faccia portavoce delle minoranze. Apprezzo lo sforzo, la penso come voi, ma anche meno.
La diciottesima stagione ha velleità da manifesto politico ma si esaurisce in un corredo di slogan: una perenne e velata – a tratti esplicita – critica al sistema, il riconoscimento dell’identità non binaria, dei diritti dalla comunità LGBTQI+, la salute mentale sul posto di lavoro, l’eutanasia e le terapie del dolore, i diritti della comunità asiatica e l’accettazione del mancato desiderio di maternità. Un grande sversamento di realtà in 20 episodi dove si parla di tutto ma senza riuscire a costruire un ragionamento organico e continuativo che vada a fondo delle cose per farne emergere la complessità. È qui che si cela il potenziale mancato di un’intera stagione: aver scelto dei temi, aver preso una posizione, e averla chiusa lì.
Nessuno si aspetta di vedere in Grey’s Anatomy la rappresentazione della nuova lotta di classe, questo è ovvio. Ma spostiamoci negli Stati Uniti per un secondo, sono le 9 PM e sulla ABC qualcunə ci sta dicendo che è legittimo e possibile non desiderare la maternità, o che non è più comprensibile osservare una legge che impedisce alle persone gay sessualmente attive di donare sangue. E qualcunə, improvvisamente, prende consapevolezza di uno spaccato di realtà non considerato fino a quel momento. Penso a questo quando mi chiedo quale possa essere ancora oggi l’utilità di un’ulteriore stagione di Grey’s Anatomy.
QUINDI, COSA CI TIENE ANCORA QUI? QUEL POCO, POCHISSIMO CHE RIESCE ANCORA A DARE
Sono rimasta nonostante l’addio dell’immensa Sandra Oh, non mi indigno di fronte a tragedie improbabili, né mi lamento della pacatezza di una serie che è cresciuta e maturata assieme ai suoi protagonisti e che, per forza di cose, manca di quell’ardore giovanile dei primi tempi. Trovo alcune riprese e alcuni montaggi manchevoli, percepisco la lentezza di certi snodi narrativi e la forzatura nella costruzione di alcune coppie, eppure – con tempi dilatati – lo seguo ancora, e ogni volta che attacca Chasing Cars di Snow Patrol continuano a inumidirsi gli occhi. Per quanto mi riguarda, Grey’s Anatomy ha creato una micro comunità di superstitə spettatorə. Una rete di persone che, consapevole di essere ormai ben oltre il limite per conservare integra l’anima della serie, prende ciò che viene senza troppe aspettative e trasforma l’atto del guardare in un rito, un’abitudine sentita e condivisa. Una innocente curiosità ci spinge a esserci, rinnovo dopo rinnovo, perché, toccato l’apice dell’assurdo, non resta che continuare a sbirciare per vedere i nuovi posizionamenti politici della serie, ma soprattutto per vedere come calerà il sipario. E ci piace farlo perché dopo quasi vent’anni, siamo ancora sensibili ai ricordi spesso rievocati negli episodi, scomodando quella nostalgia che è il punto debole del pubblico di GA. E forse anche perché non ci dispiace poi così tanto sentire la presenza, seppur sotto traccia, di qualcosa di duraturo che ci portiamo dietro negli anni, la nostra personale perversione che assolve a quel bisogno universale di umile e innocua leggerezza, senza pretesa alcuna.