Affinità elettive tra Gargaroz, L’Esorcista, Lo Squalo e la Scuola di Francoforte

Affinità elettive tra Gargaroz, L’Esorcista, Lo Squalo e la Scuola di Francoforte

Uno degli apprezzati effetti collaterali del far parte della redazione di BILLY – rivista di cinema e altre perversioni è partecipare a pantagruelici aperitivi contraddistinti da dosi elevate di imprevedibile situazionismo. In un millesimo di secondo un intervento improvviso, un “Mi ritorna in mente”, possono dare vita a vortici infiniti di riferimenti, aneddoti e, naturalmente, citazioni cinematografiche. Che poi, a pensarci, quello dell’autoreferenzialità spinta agli eccessi è un tratto inconfondibile delle amicizie stimolanti e, si spera, durature. Dico di più, è metro di giudizio per lo stato di salute dei nostri rapporti affettivi. A un certo punto del percorso, infatti, non rimane che coltivare insieme, e caoticamente, i piaceri condivisi nelle proprie esistenze. E questi piaceri, tradotti nel mondo di BILLY, si chiamano, a volte, altre perversioni.

Il situazionismo nonsense si è dimostrato ancora più autoreferenziale quando durante l’ultima riunione di redazione l’improvviso “Mi ritorna in mente” ha tirato in causa Elio e le Storie Tese, che sulla referenzialità ci hanno costruito un’onorevole carriera. E proprio quest’occasione è diventata stimolo e pretesto per approfondire le affinità elettive, i legami indissolubili tra un mal di gola, il cinema horror e thriller anni ‘70, il traffico illegale di tonsille sul web e gli effetti del giudizio critico della scuola di Francoforte sull’industria culturale.

Il primo quesito è: quanto audiovisivo c’è in Gargaroz?

Il motivo che muove il citazionismo sfrenato e situazionista di Gargaroz (Studentessi, Hupakan, 2008), è proprio il cinema. Elio fa quello che la redazione di BILLY si ritrova a fare per buona parte del proprio tempo: stare in panciolle e visionare film.

In panciolle me ne sto
Visiono un film magnifico
Quello dove c’è la ragazzina posseduta dal demonio
Con il prete che alla fine va giù
La sua mamma è preoccupata
Perché dice parolacce e manda tutti a fancù
Poi c’è quella scena che il prete si avvicina
E lei gli spara del vomito verde che aveva nel
Gargaroz

Infatti nel 1973, dopo la vittoria agli Oscar con il meraviglioso Il braccio violento della legge – uno degli apripista per la fortunata e rimpianta stagione del cinema di genere post Sessantotto – William Friedkin presenta L’esorcista, capolavoro e titolo d’antologia del cinema horror e non solo, entrato nell’immaginario collettivo come paradigma visivo della possessione demoniaca, ma inizialmente metafora di un sistema sociale ricco di imprevedibilità e diavolerie.

Lo Squalo bianco si estinguerà
Si però lo squalo, quello di Spielberg
Mi ha rovinato il piacere del bagno in mare
Eh per forza, mangiava motoscafi, barche
Pontili e bomboloni del gas

Due anni dopo L’esorcista, Spielberg esce con Jaws – che per la sfumatura laringo-faringea dell’articolo mi sembrava quasi un peccato chiamarlo Lo squalo – rappresentazione marina di un’ansia sociale americana palpabile dopo la crisi petrolifera, la débacle politica di Nixon, i morti alla Kent State University e il disastro del Vietnam.

Il prezioso contributo di questa stagione cinematografica è allora quello di aver codificato ed elevato artisticamente il valore del cosiddetto genere.

Come rivela Tarantino a Ghezzi in una preziosa puntata di Fuori Orario: «Uno dei motivi per cui mi piace il cinema di genere è che posso lavorare all’interno di un genere rivelando me stesso completamente e nascondendomi allo stesso momento». Ed è proprio questa dimensione che va a caratterizzare l’utilizzo di una forma artistica fatta di stilemi facilmente identificabili e traducibili dal pubblico – quella del genere, appunto – con un sostrato di significati che dalla riflessione personale dei registi passa a giudizio e analisi sociale del mondo circostante.

Questo modo di decostruire l’audiovisivo, di prediligere significati nascosti dietro un significante apparentemente chiaro, codificabile e comprensibile, questa natura polisemica, sono tratti distintivi necessari dopo il recupero da parte del Sessantotto delle filosofie distruttive della Scuola di Francoforte. Partendo così dall’assunto di Horkheimer e Adorno, che fu anche di Benjamin, per cui il cinema è morto con la tecnica e che «i cineasti considerano con sospetto e diffidenza ogni manoscritto che non abbia già dietro di sé, come sua fonte, un rassicurante best-seller» (Dialettica dell’illuminismo), mantenere trame immediatamente traducibili e accogliere la ripetizione del sempre uguale sono ormai passaggi inevitabili per chi opera nella grande distribuzione. E la risposta, intelligente, di questi registi è stata ammettere a se stessi tale condizione – guarda caso L’esorcista e Lo squalo sono trasposizioni di romanzi di successo – e aggirarla tramite l’inserimento nei film di significati non immediatamente identificabili, più nascosti. Vere e proprie metafore della realtà. La forma è limpida; il contenuto, da decifrare.

Insomma un grande viaggio, nato da un momento di caos redazionale, che a sua volta prende spunto da una canzone in cui il pretesto autoreferenziale per parlare di cinema – che va sempre bene – è che in quegli stessi anni, a Elio, hanno semplicemente tolto le tonsille dal gargaroz.

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