Scissione
O del realismo capitalista
Scissione è un prodotto distopico, nei termini in cui la distopia si declina oggi: un mondo non distante, molto prossimo se non addirittura contemporaneo al nostro, una situazione riconoscibile e praticabile, possibile e famigliare, personaggi con vite del tutto sovrapponibili alle nostre. Ciò rende Scissione un dispositivo metaforico, come lo è ogni distopia, per sua stessa natura.
Da questo punto di vista la critica che innerva la serie è del tutto chiara, forse fin troppo scoperta: il capitale come alienazione e appropriazione della vita dell’essere umano, articolate nella possibilità di dividere – scindere — la vita extra-lavorativa da quella lavorativa, così da rendere il dipendente meno consapevole di sé, della sua identità, della sua appartenenza. Appartenenza che, nello ore lavorative, è immagine di devozione, prostrazione, fedeltà incondizionata al brand, alla ditta e ai suoi fondatori. Fuori dall’azienda, il lavoratore non ricorda invece alcunché del suo lavoro — al contrario dei suoi capi e controllori — né dei suoi colleghe e delle sue colleghe, dei loro rapporti, delle loro relazioni, della loro umanità. Una situazione, appunto, dis-umana, che ha come elemento di continuità il fatto che i dipendenti non sanno in cosa consiste il loro lavoro, non solo non possiedono marxianamente il prodotto finale che contribuiscono a creare, ma non hanno neppure idea del senso delle loro mansioni.
In Scissione però l’umano è, alla fine, irriducibile ai dettami del capitale, e qualcosa penetra nelle crepe, nelle contraddizioni del sistema fino a porre in discussione il sistema stesso, dal basso e non solo. Succede quando si comincia a vivere e si smette di esistere semplicemente. Un percorso di presa di coscienza (di classe?), confuso, inattuale e doloroso.
Tutto molto rassicurante quindi? Forse, per certi aspetti, anche se l’umano, il reale, esonda e resta del tutto inattuabile. E fin qui siamo nel campo del prevedibile. Per altri aspetti però, più rilevanti, ciò che fa scricchiolare Scissione — un prodotto ben girato, ben scritto, ben recitato — è proprio la sua matrice produttiva. Stiamo parlando di quel brand che più altri ha segnato, nell’immaginario contemporaneo, a livello di comunicazione, il millennio, la creatura dell’uomo che più di altri incarna la dimensione mistica e salvifica del capo, ossia la Apple e Steve Jobs.
Difficile pensare che si possa trattare di autocritica, più facile immaginare che sia un panegirico edificante, per quanto disturbante e potenzialmente in grado di inceppare il meccanismo, in cui il capitale dimostra di essere in grado di inglobare al suo interno — rendendole funzionali — anche le spinte maggiormente distruttive, antisistemiche, radicali e critiche. In questo senso Scissione è un capolavoro della contemporaneità, è un monumento all’impossibile, ancora da completare, è l’esempio riuscito e chiaro e immanente — ben scritto, ben girato, ben recitato, ben prodotto — di quanto sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, per usare un adagio di sicuro troppo abusato ma ancora estremamente preciso e attuale.