The Northman e le revisioni del mito
Anni dopo aver assistito all’uccisione di suo padre, il re Aurvandill (Ethan Hawke), per mano di suo zio Fjölnir (Claes Bang), ed essere riuscito a fuggire, Amleth (Alexander Skarsgård), divenuto un vichingo, decide di mantenere la promessa di vendicarlo con l’aiuto della maga slava Olga (Anya Taylor-Joy).
«Ti vendicherò padre, ti libererò madre, ti ucciderò Fjölnir»: con questo giuramento, che si ripete come un mantra all’interno del film, il giovane Amleth segna il proprio destino che sarà per lui un chiodo fisso prima e una pietra tombale poi.
Ritorna quindi nel cinema di Robert Eggers, che per chi scrive si conferma il regista di maggior talento degli ultimi dieci anni, l’idea di un uomo in balia degli eventi, di un qualcosa più grande di lui da cui non può sottrarsi, era così in quella piccola perla che è The Witch (2015), dove a Thomasin non resta altra scelta che diventare una strega, e anche in quel grandissimo film che è The Lighthouse (2019) dove l’uccisione di un gabbiano porta i due protagonisti (ma sono davvero due?) in un abisso di follia. Così anche la sua terza fatica The Northman, scritta insieme al poeta e scrittore islandese Sjón riprendendo la leggenda scandinava che ispirò Shakespeare per la sua tragedia, non fa eccezione.
Amleth infatti è incapace di mettere in discussione il concetto di destino a cui è devoto e attorno a lui orbitano figure femminili stregonesche che lo spingono verso di esso, come la cieca veggente (Björk), o lo mettono in discussione, come la regina madre Gudrún (Nicole Kidman) e la stessa Olga. L’eroe sarà dunque chiamato a scegliere la sua strada all’interno di un racconto epico che rinuncia alla tronfia spettacolarità dei blockbuster di avventura riuscendo a intrattenere ugualmente e al cui interno ritroviamo elementi psicoanalitici e iconografici cari al regista.
Opere, quelle del cineasta statunitense, mai ambientate nella contemporaneità, dove fiaba nera, religione, mito, tragedia si mescolano sempre, e in particolare The Northman si inserisce all’interno di un revisionismo mitologico molto presente nel cinema contemporaneo, basti pensare alla casa di produzione A24 e ai suoi film quali Macbeth (2021) di Joel Coen e Sir Gawain e il cavaliere verde (2021) di David Lowery oppure, passando alla 20th Century Studios, a The Last Duel (2021) di Ridley Scott.
Lavori che partono dall’autorialità per poi intercettare un senso di riflessione su i nostri ruoli, su quello che eravamo e su quello che siamo e saremo. Una riscrittura di un mondo passato per incidere sul futuro, dove si prende un’idea, una verità per metterla in discussione, e forse, in un momento storico in cui, in Occidente, sono tornati eventi che credevamo di leggere unicamente sui libri o di sentirceli raccontare dai nostri nonni, dovremo chiederci se siamo ancora soggetti a vecchi schemi, se ci sentiamo devoti a destini che sembrano più esserci stati imposti da altri anziché andargli incontro noi e se siamo davvero in grado di staccarci da essi. E se questo cinema ci riporta al bisogno primario dell’uomo di raccontare e di sentirsi raccontare storie, dovremo chiederci se siamo pronti ad accettare versioni diverse di una storia che per noi era già nota.