Dying to divorce
«WE ARE LEARNING, EXPLAINING AND EXTENDING THE STRUGGLE
We know both the answer and solution to the question of why femicide rates have increased:
The society is progressing; women are adapting to this change and asking for their modern rights. Women, from all regions and social segments of Turkey, want to work, have access to education, get a divorce or break up with their partners if they are not happy, not to be forced to do things they do not want to, and make their own decisions about their lives. This is an indispensible and irreversible historical process. Women will certainly gain their rights through struggle. However, they are not supposed to pay such a price. Patriarchy is the reason behind the loss of so many lives».
Si apre così la versione inglese del sito We Will Stop Femicide, dell’associazione di Ipak, protagonista di Dying to divorce. Scorrendo il sito, è possibile vedere il macabro contatore che aggiorna mensilmente sulle donne uccise e disperse in Turchia. In questo stesso modo inizia Dying to divorce, con un contatore che segna il numero di vittime annuali e sembra non fermarsi mai.
Si apre nel buio, con una donna che mostra il posto in cui ha subito l’aggressione del marito, sparata alle spalle, con un fucile .
E il buio e la violenza caratterizzano tutto il documentario, mentre racconta l’immensità del problema della violenza di genere in Turchia e le turbolenze politiche che hanno interessato il paese. Attraverso i casi seguiti da We Will Stop Femicide, il film getta luce sulla terribile situazione delle donne in Turchia e mostra come lo stato e il sistema giudiziario non le tutelano affatto.
Seguiamo la storia di Arzu, data in sposa all’età di 14 anni e con le braccia e le gambe orribilmente deformate a causa dei colpi, anche questa volta, di fucile sparati dal marito perché lei aveva chiesto il divorzio.
Ci viene presentata poi Kubra, una conduttrice televisiva di Bloomerg, che il marito ha colpito alla testa fino a causarle un’emorragia cerebrale, che adesso le impedisce di essere autosufficiente e persino di parlare con facilità.
Ma la crudeltà di queste azioni non è sufficiente a causare una reazione da parte del sistema giudiziario, che anzi spesso riduce (fino ad annullare di fatto) le pene per chi commette atti di violenza di genere.
Queste storie private sono, infatti, indissolubilmente legate a una dimensione pubblica che avalla un sistema patriarcale, nella figura di un presidente che è costantemente autore di fatti e dichiarazioni volti a sminuire le donne. Nel documentario, ad esempio, vediamo il momento in cui afferma che non si può dire che donna e uomo siano uguali perché sarebbe contro-natura.
Le vicende politiche del paese sono infatti inscindibili dai fatti raccontati nel documentario, e da un leader autoritario ed estremista, dalle idee pericolosamente regressive. Lo stesso leader che al momento gode di grande popolarità perché il mondo sembra averlo scelto come mediatore in una guerra (mentre ne conduce parallelamente – e illegalmente – altre due).
Ma, nonostante tutto l’orrore causato da questo sistema, questo film lascia comunque con la speranza che le cose non rimarranno per sempre così.
E non rimarranno per sempre così grazie alla forza di donne che dopo aver subito tutto il male del mondo sui loro corpi, scelgono di rialzarli, portarli in salvo e usarli per combattere questa battaglia impari.
E non rimarranno sempre così grazie al coraggio di ragazze che ogni giorno scendono in piazza per protestare contro un sistema marcio, sapendo che rischiano di scomparire da un momento all’altro.
«Questo è un processo storico indispensabile e irreversibile. Le donne si guadagneranno sicuramente i loro diritti attraverso la lotta. Ma non dovrebbero pagare un prezzo così alto. È il patriarcato la ragione dietro la perdita di così tante vite!».