The House – La casa delle ossessioni
Quando la vita scorre tra una quarantena e l’altra le piattaforme di streaming diventano le compagne più fedeli e sicure con cui passare il tempo. Pian piano cominciano a conoscerci e a profilarci in modo sempre più dettagliato, fino a quando il contenuto che ci propongono è esattamente ciò di cui non sapevamo di aver bisogno. È proprio questo il percorso che su Netflix mi ha portato a scoprire The House, uno dei film più strani che mi sia mai capitato di vedere.
Bambole di pezza, topi e gatti antropomorfi sono i protagonisti di tre storie ambientate in epoche differenti ma accomunate da una Casa che attrae come una calamita, un elemento tanto forte da diventare praticamente un personaggio a se stante. E dentro di me, si intesse una menzogna racconta la storia di una famiglia umile che si trasferisce in un’enorme casa ben arredata, The House appunto. La loro ossessione per ciò che non hanno mai avuto e finalmente gli sembra di possedere li prende al punto tale da dimenticare chi sono. Complice un patto col diavolo che non si rendono nemmeno conto di aver siglato, si convincono talmente tanto di appartenere a questo nuovo ambiente da venirne letteralmente inglobati.
Neanche il tempo di metabolizzare il finale del primo capitolo di questo strano trittico di racconti, ed ecco che siamo già al secondo, Perduta è la verità che non si può vincere, quello che fra tutti crea più vicinanza con il personaggio. Stavolta la Casa è di un costruttore problematico che passa la sua vita mettendola a nuovo per poterla vendere. Un investimento che non si rivela esattamente fruttifero, fra un’invasione di scarafaggi e un tentativo di occupazione. Nel momento di maggiore difficoltà ci si rende conto di quanto l’ossessione per la Casa non sia l’unica a popolare la testa del costruttore, così disperato da ritornare allo stato bestiale che lo appartiene. Perché sì, quasi dimenticavo, si tratta di un topo.
Last but not least, dopo il trauma inflitto dal finale di questa storia, eccoci piombare in Ascolta di nuovo e cerca il sole, l’unico capitolo in cui si intravede un barlume di speranza. Una giovane sull’orlo di una crisi di nervi è alla ricerca di inquilini rigorosamente paganti per poter rimettere in sesto la sua vita e, ovviamente, la Casa. Il suo è un mondo fatto di nebbia, solitudine e dell’incombente minaccia di un’inondazione, ma le poche persone – ehm, i pochi gatti – che le sono attorno non sembrano avere le sue stesse preoccupazioni. Nella sua vita l’obiettivo è ben chiaro: far tornare la Casa agli antichi splendori, ma è proprio quando si arrende all’insensatezza di questo desiderio che ritrova la sua strada.
Registi diversi, storie diverse, protagonisti diversi, epoche diverse: ogni elemento di The House sembra a se stante ma è in realtà intimamente coerente con tutto il resto. Il collante è l’ossessione, qualcosa che assume talmente tanta importanza nella testa dei protagonisti da fargli perdere di vista ogni altra cosa, le loro intere vite. Nel film l’ossessione è la Casa. Che sia vissuta in quanto ricchezza materiale o come obiettivo di vita, la Casa è totalizzante e non lascia spazio per niente che non sia la Casa stessa.
In un film animato in cui personaggi e luoghi sono inquietantemente reali, l’umanità è resa meravigliosamente attraverso protagonisti che umani non sono. Gatti, topi e bambole sono persone nei loro movimenti – e lo stop-motion usato per la realizzazione non ne mina la naturalezza – ma anche e soprattutto nei loro desideri. Vorrebbero ricchezza, realizzazione, rapporti veri; vorrebbero ciò che in un modo o nell’altro vogliamo tutti. E come tutti sono preda delle loro manie, si aggrappano a desideri che diventano malati e fanno perdere il contatto con tutto il resto. The House concretizza l’ossessione in un luogo fisico che dovrebbe essere quanto di più rassicurante ci sia al mondo, ma invece rappresenta le paranoie e le manie che ci allontanano da noi stessi e che diventano le protagoniste di una vita che invece è la nostra. E della quale vale sempre la pena riappropriarsi.
The House, nel suo essere a tratti horror, a tratti drammatico, ci racconta però anche che mettere da parte le ossessioni si può. La Casa, centro della finzione narrativa e delle vite dei protagonisti, può tornare a essere uno spazio in cui stare bene, ma da cui non dipendere. Ma ciò soltanto quando ci si rende conto del fatto che non è il fine ultimo della nostra esistenza, ma solo il mezzo per arrivare a qualcosa. Come una barca per navigare in mare aperto per vedere finalmente il sole.