Landscapers e il confine tra reale e immaginario
Un’immagine in 4:3, un bianco e nero che ha il sapore dei vecchi noir anni ’50, un’istantanea su una piazza in cui tutto appare immobile e immutabile, fissato nel tempo e dal tempo (come una cartolina, come un ricordo). La stessa immagine prende colore, cambia il formato, comincia a cadere una pioggia chiamata da una voce fuori campo, la stessa voce che poco dopo invita al movimento le persone dentro la cartolina. Sullo schermo appare la scrittta «Questa è una storia vera», nello stesso istante una voce grida «Azione!». La prima scena di Landscapers arriva dritta al punto, ti coglie impreparato e ti ammutolisce come una domanda scomoda. Qual è il confine tra la realtà e la finzione? Cosa rimane della “verità” dopo che la sua rappresentazione l’ha tradita? Fino a che punto ci si spinge nella menzogna per rendere “vero”, e quindi sopportabile, un ricordo?
Ciò che mette in scena Landscapers è un continuo gioco di rappresentazione della realtà tramite i filtri soggettivi dei suoi personaggi che, ricostruendo un passato alterato dalla percezione personale, ne falsificano la conoscenza e il valore anche nel presente, attraverso una traduzione (e quindi un tradimento) in cui si mescolano piani narrativi fittizi, cinema e fiction, in cui tutti i personaggi interagiscono con la rappresentazione del ricordo attingendo dal proprio bagaglio personale, in cui il vero e il falso diventano il prodotto della mente di chi li (ri)costruisce.
In questo mondo di prospettive ogni cosa diventa narrazione post-moderna, ogni individuo è sottomesso alla propria ricostruzione e assimilazione del ricordo che, sostituendosi alla realtà, ha contribuito alla creazione di un palcoscenico in cui la distinzione tra vero e falso perde ogni significato quanto più, quella ricostruzione, diventa funzionale ad accettare il presente.
«Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso», scriveva Debord, e nel mondo di Landscapers ogni cosa è rovesciata e nessuno (tantomeno la regia o la sceneggiatura) ci mette nelle condizione di trovare una verità assoluta e inequivocabile: è compito di chi osserva cercare di ricostruire una propria verità, con i propri filtri, facendo in modo che diventi la nostra e non di chi la racconta, rendendola così ancora più falsa.
Ogni immagine di Landscapers ci mette di fronte a un artificio dove ogni storia (e la storia stessa) fa parte di un universo personale in cui gli sguardi si alienano dalla visione oggettiva delle cose e, sempre citando Debord, «le immagini che si sono staccate da ogni aspetto della vita si fondono in un corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si spiega nella sua unità generale come pseudo-mondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo, si ritrova, compiuta, nel mondo autonomizzato dell’immagine, dove il menzognero ha mentito a sé stesso»: così ogni aspetto di Landscapers diventa rappresentazione di una bugia raccontata con l’intento di autoassolversi, prendendo le distanze dall’oggettività e dalla vita.