È stata la mano di Dio
Quando te ne vai dal posto in cui sei cresciutə, ti porti sempre dietro (e dentro) qualcosa: un ricordo, un modo di dire, un modo di pensare, la gente, un accento, un’immagine. Non deve per forza piacere, non deve per forza farti stare bene, ma è lì e non puoi fingere che non esista. E non puoi fingere che non esista soprattutto quando quel posto, con tutto ciò a cui è legato, lo vedi così ben rappresentato da Paolo Sorrentino in un ritratto di Napoli assolutamente sincero.
I personaggi, i luoghi e le superstizioni di È stata la mano di Dio fanno tutti parte di un immaginario così vero e presente nella mente di ogni napoletanə (e non solo), che vederli messi in scena in modo così autentico fa bene all’anima. Anche – o forse soprattutto – di chi da Napoli è andatə via. Perché Napoli ti resta attaccata addosso, come la pelliccia della Signora Gentile.
In È stata la mano di Dio Sorrentino ripercorre la sua adolescenza senza forzature, vagando per le strade della città come fossero i suoi ricordi. Autobiografico (ma non fastidiosamente autoreferenziale) al punto che le scene a casa del protagonista sono state girate in un appartamento del palazzo dove Sorrentino ha davvero trascorso la sua infanzia, il film scorre senza intoppi. Anche quando sembra stia rallentando, la narrazione riparte e torna a incollarti allo schermo, grazie a una scrittura che rende fluido il susseguirsi degli eventi, in un continuo alternarsi di scene ironiche e commoventi, come solo la Napoli degli anni Ottanta – e, per certi versi, anche quella di oggi – poteva regalare.
Attraversando un percorso di crescita, il giovane Fabietto sembra non sentirsi a proprio agio, come se fosse sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, tant’è che Napoli, poi, se la lascerà alle spalle. Eppure Fabietto è a Ischia quando doveva essere a Ischia, è nella Galleria Umberto I quando doveva essere nella Galleria Umberto I, è a teatro quando doveva essere a teatro, ed è allo stadio quando doveva essere allo stadio: È stata la mano di Dio è, essenzialmente, un film sul tempismo.
Sorrentino mette in scena l’essenza della sua napoletanità e quel sottile e spietato senso di colpa che prova chi lascia il proprio luogo d’origine. Ma non c’è vittimismo, mai, né nelle scene di dolore, né nelle parole di monito del suo mentore Capuano.
Sono andata via da Napoli in cerca di qualcosa di nuovo, col timore di disunirmi, eppure, se non l’avessi fatto, non avrei potuto sperare di vedere il monaciello alla stazione di Formia.