La fiera delle illusioni
Dentro il cinema del ritorno
Il regista Guillermo del Toro torna in sala cinque anni dopo la sua vittoria al Festival di Venezia e agli Oscar con La forma dell’acqua (The Shape of Water, 2017) e decide di farlo realizzando il remake dell’omonimo film del 1947 diretto da Edmund Goulding: La fiera delle illusioni (Nightmare Alley).
Ambientato negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’40, il protagonista della pellicola è Stan (Bradley Cooper), un imbonitore di un luna park che, oltre a svolgere la mansione di giostraio, è anche un abilissimo truffatore che con grande facilità riesce a manipolare le persone grazie a una retorica breve e d’impatto. Per mettere a segno al meglio i suoi imbrogli decide di lavorare in combutta con una psichiatra, più infida di lui, per estorcere con l’inganno del denaro a persone facoltose.
In un momento in cui le sale (solo?) in Italia sono quasi abbandonate dalla paura del pubblico e dei distributori, il cinema sembra essere oggetto di una profonda auto-riflessione, in un ritornare a se stesso quasi per proteggersi, ritrovarsi e, perché no, ritrovare il pubblico: abbiamo infatti finito l’anno precedente con opere pervase di operazioni nostalgiche come Spiderman: No way Home e West Side Story e abbiamo ricominciato sulla stessa lunghezza d’onda con Matrix Resurrections e Scream. Così, all’interno di questo percorso di ritorno al passato, si inserisce anche il film di del Toro che trasforma un’opera non molto riconosciuta all’epoca in una di massima grandeur con grandi attori hollywoodiani (Cate Blanchett, Rooney Mara, Willem Dafoe, Toni Collette) e con una durata di due ore e mezza.
Un film dove ritornano, appunto, tante tematiche: l’assenza o il disprezzo della figura paterna (caratteristica del cinema Nordamericano dell’ultimo decennio); la punizione nei confronti di un uomo che vive solo per i soldi e che finisce per perdere tutto credendo di poter arricchirsi mentendo alle persone, sfruttando le loro fragilità e portandole in una realtà altra, quella che lui pensa vogliano sentirsi dire, tenendole lontano dal mondo reale (che vede gli Stati Uniti entrare nella Seconda Guerra Mondiale); alla base c’è la filosofia da sempre portata avanti dal regista, quella per cui i veri mostri sono gli esseri umani e a riprova di questo per la prima volta del Toro abbandona la dimensione del fantastico non mettendo in scena né mostri, né fantasmi o creature mitiche. E la battuta finale, condita da un’amara risata che sfocia in un singhiozzo, sul diventare l’uomo bestia all’interno del circo ne è il suggello: «Sono nato per questo».
Se già La forma dell’acqua era una fiaba senza idillio ecco che ora del Toro lascia definitivamente la fiaba mostrandoci un racconto morale dove il circo è triste, è inganno (lontano dalle rappresentazioni di Fellini e Tim Burton) e dove neppure un’altra realtà è una forma di consolazione in quanto falsa e dunque priva di magia.