Incontro con Lorenzo Hendel
Inventare una storia vera
Le due masterclass del documentarista Lorenzo Hendel, tenutesi durante la seconda giornata di Meet the Docs, sono state un lungo viaggio nella drammaturgia del documentario. Dal 2007 al 2013, Lorenzo Hendel è stato responsabile editoriale di DOC3, la trasmissione “dei documentari” di Rai3, ed è da lì che il suo racconto è partito: dagli anni in cui ha visionato e scelto decine di documentari da proporre al grande pubblico. Un’impresa per cui ha dovuto darsi un metodo di selezione, dei parametri, ha elaborato dei paradigmi: tre approcci filosofici e operativi che gli hanno permesso di ordinare centinaia di documentari a prescindere dal loro contenuto. Sei ore di masterclass, dunque sei ore di riflessioni, professionali e personali insieme, su un genere cinematografico in profonda trasformazione accompagnate dalla proiezione di spezzoni scelti ed esemplari.
All’inizio fu il primo paradigma, che riflette le caratteristiche del documentario “classico” (cioè quello che, se avete superato i trent’anni, è per voi il documentario “classico”), tematico per definizione. La storia raccontata dal documentario tematico, non a caso, ha infatti la forma del “saggio illustrato”, è la narrazione del contesto: attraverso una voce narrante fuori campo, le interviste, i materiali d’archivio e tanti fatti e dati. Elementi narrativi che — considerati necessari al documentario che voglia definirsi tale — nel corso del tempo hanno imprigionato la creatività del documentarista, il quale ha iniziato a soffrire dell’obbligo di dare allo spettatore informazioni e ancora informazioni per poter vedere riconosciuto il proprio lavoro.
Tuttavia, tante sono state le proposte interessanti all’interno di questo primo paradigma, tra cui “Surplus: Terrorized into Being Consumers” (2003) di Erik Gandini — lo stesso Gandini di “Videocracy” (2009). Poi c’è stata la rivoluzione digitale… e a partire dagli anni Novanta la costruzione narrativa del documentario è cambiata in modo radicale.
Dice Hendel: in quegli anni, la produzione dei documentari si è liberata dei costi e delle problematiche operative relativi all’uso della pellicola, consentendo ai documentaristi di girare ore e ore di filmato senza il bisogno di avere sotto controllo ogni fase della produzione. Le loro storie dichiaravano la rappresentazione senza filtri della realtà — dietro la camera, il documentarista voleva scomparire, essere “mosca sul muro”; poi hanno iniziato a inseguire la vita dei personaggi nelle abitudini, nelle scelte, trovando in esse la ragion d’essere del documentario. La drammaturgia propria della fiction cinematografica è infine entrata nella narrazione documentaria, portando con sé lo sviluppo dell’arco narrativo del personaggio, il viaggio dell’eroe e la sua trasformazione in presa diretta.
Continua Hendel: dunque, il secondo e il terzo paradigma, che danno corpo al cosiddetto documentario osservazionale e al documentario narrativo, sono le filosofie “del gerundio”, del tempo presente che si dispiega davanti agli occhi dello spettatore, il quale, nel frattempo, empatizza con una realtà che sembra somigliargli sempre più.
Il documentario osservazionale è quello di Frederick Wiseman, che mentre riprende fa esperienza lui stesso, in prima persona, di una realtà priva di arco narrativo, dove i personaggi sono anonimi, indifferenziati. La ricerca documentaria — non più realizzata in fase di pre-produzione — viene ora realizzata sul posto, durante le riprese, e senza contaminare i fatti — o almeno, così vorrebbe la teoria.
Il documentario narrativo, d’altro canto, è quello che la presenza del regista la rivela eccome, e il ruolo della telecamera è palesato, è efficace. La soggettività del regista è parte integrante della storia — come in “Between Sisters” (2015) di Manuele Gerosa, che si precipita ad abbracciare la zia e la madre in un momento in cui, umanamente, non avrebbe potuto fare altrimenti — o, addirittura, il regista è protagonista del documentario — come in “The special need” (2014), di e con Carlo Zoratti, co-protagonista di una storia di amicizia. Perfetto, dal punto di vista del paradigma del documentario narrativo, secondo Hendel, è “Blenio Utah” (2019) di Patrick Botticchio, la cui forza drammaturgica è data da una solida linea narrativa e da personaggi limpidi, dagli obiettivi chiari, che guardano in macchina rivolgendosi direttamente al regista.
In altre parole, riassumendo, per Hendel: la realtà (che si vorrebbe) oggettiva raccontata dal documentario tematico e dai prodotti giornalistici, investigativi e d’inchiesta che ne costituiscono una sottocategoria, ha in gran parte lasciato il posto al ritratto, alla descrizione senza tensione narrativa della realtà così com’è (il documentario osservazionale) e al punto di vista del personaggio, alle interviste prive di nascondimenti, occhi negli occhi tra regista e personaggi (il documentario narrativo). La drammaturgia della narrazione ha reso popolare il documentario, ma lo ha contaminato?, si chiede Lorenzo Hendel: per lui, il valore primario del documentario è la verità che esso racconta — la verità su una “realtà” che, tuttavia, diceva qualcuno, è l’unica parola che andrebbe scritta tra virgolette.
(Per vedere la masterclass: https://www.facebook.com/meetthedocs/videos/1030410964421436)