Strappare lungo i bordi
Ovvero: come non portare il peso del mondo sulle proprie spalle
Avvertenza: evita il binge watching se vivi in un perenne stato d’ansia e di crisi esistenziale!
Strappare lungo i bordi è una serie d’animazione che merita poche parole, ma quelle giuste, così come i suoi episodi: solo sei, ma pensati nel minimo dettaglio.
Ognuno di questi dà un pugno nello stomaco. Concedono, di fatto, poco spazio al respiro e alla riflessione. Se li vuoi, devi mettere in pausa e prenderteli. Per questo motivo, consiglio di evitare un binge watching se si vuole godere appieno del loro significato.
Michele Rech realizza una serie che, di primo acchito, sembra avere un andamento verticale, in cui ogni episodio è indipendente dagli altri. Dopo poco, però, si intuisce un’orizzontalità della narrazione: l’autore sta andando da qualche parte. Ripercorrendo la propria vita, attraverso aneddoti e continui flashback, sta facendo i conti con il presente.
Ogni scena, nella sua realizzazione grafica, è una piccola perla. Se osservate attentamente, alcune scene contengono numerosi riferimenti: il poster del disco London Calling dei Clash, appeso in camera di Zero tradotto in “Chiamando Londra, The Clesh”; il continuo rimando al logo Antifa che appare su locandine o pareti; il richiamo alla musica Punk degli anni Novanta: sono i Klaxon che suonano “Libero” nel locale dove Zero incontra Alice. Può diventare l’occasione per molti di avvicinarsi a un genere musicale, e non solo, che, purtroppo, oggi non trova spazio per affermarsi tra i più giovani.
Michele ha la straordinaria capacità di raccontare in maniera autentica il reale che, questa volta, è colto in pieno. Nulla di edulcorato o ammorbidito quindi, ma la realtà è così come la racconta: problematica, per nulla facile e mai lineare. Non si può avere il controllo su tutto. Non possiamo seguire dei bordi tratteggiati che ci indicano la giusta direzione, perché non ne esiste solo una già prestabilita.
Il reale accade passo a passo, un po’ come Secco, che vive alla giornata aspettando de pijarse er gelato, o cercando di vincere una partita di poker per pagare le bollette. Oppure come Sarah, che spera di fare l’insegnante fin da quando è bambina, ma nel cammino della vita esce dai bordi e fa tutt’altro.
Non possiamo decidere chi saremo. Ecco perché si è divorati dalla potenza della crisi esistenziale di Zero, tema onnipresente della narrazione. Sono i continui aforismi dell’Armadillo e degli amici di una vita a non darci tregua, ci inseguono episodio dopo episodio, ci dicono «dove pensi di scappare? Questo è capitato anche a te».
Infatti, Zerocalcare lo racconta perfettamente: sin da bambini si vive con aspettative sociali da realizzare, non si sfugge. É quello che ci insegnano. E se non riusciamo, allora scatta la crisi.
La crisi di non essere abbastanza, di sentirsi inadeguati agli occhi degli altri, di deludere insegnanti e amici. Ecco, allora, che per giustificare la sua, presunta, incapacità a soddisfare le aspettative altrui, Zero rimane fermo con la costante paura di rovinare qualcosa.
Pensa di avere la facoltà di condizionare le vite di chi, in lui, nutre aspettative, così da scegliere di rimanere isolato in un continuo vortice di responsabilità che non si assume e di un senso di colpa per non averlo fatto.
La verità, però, come ci svelerà poi l’autore, è che non gliene importa niente a nessuno, siccome siamo solo un filo d’erba tra i tanti, e non possiamo portare tutto il peso del mondo sulle nostre spalle.
Gli episodi si alternano tra drammaticità e comicità: il tono romanesco di Zero dà vivacità anche ai momenti più tristi. É un ritmo veloce, in venti minuti si può sviluppare l’evento più divertente come quello più tragico, fino a farti trovare con le lacrime agli occhi. Guardare questa serie non ti fa sentire solo, capisci che non sei l’unico che non riesce a strappare lungo i bordi, e forse ti senti capito.
Strappare lungo i bordi è una bella pacca sulla spalla! Zero, con questa serie, fa i conti con sé stesso e invita, noi spettatori, a fare altrettanto.
Parla, però, in primis di sé: è lui il bambino che non riesce a risolvere i quesiti matematici e ha paura di deludere la maestra; è sempre lui l’insegnante che dà ripetizioni alle “ragazze topo” e spera di lasciar loro un insegnamento e dei valori; è l’amico che porterebbe ai compagni nel deserto l’acqua da Fiuggi, ma al contempo quello incapace di relazionarsi con i suoi sentimenti a tal punto da perdere un amore, Alice.
Zero è divorato dall’ansia, sempre. Anche prendere un treno gli crea problematicità.
Un treno che lo condurrà, nel corso degli ultimi due episodi, a Biella, là dove Alice vive. O meglio, viveva.
Per fortuna, anche in questo momento così devastante per chi guarda, Michele regala sollievo con scene comiche: la signora anziana ricoperta da mille strati di maglioni o i turisti tedeschi acclimatati nel loro habitat naturale, rappresentato dal gelo dell’aria condizionata del vagone.
Inaspettatamente, però, è l’Armadillo che prende parola e interrompe l’isterico flusso di coscienza di Zero, che non si dà pace lungo il viaggio. «Il paziente è consapevole» dice l’Armadillo.
Sanno entrambi dove stanno andando. In quel momento tutto cambia: silenzio.
Rimaniamo spettatori impotenti quando si inizia a comprendere il motivo per cui i tre amici stanno andando a Biella. Si intuisce che qualcosa non è andato come prestabilito, che i bordi non sono stati strappati nel modo corretto: Alice si è suicidata.
É come schiantarsi con l’auto contro un muro, anche lo spettatore più insensibile non può non rimanere attonito. Alice si è tolta la vita perché non è riuscita a realizzare le proprie aspettative così come si era imposta, così come erano incasellate dentro determinati schemi sociali: dopo la laurea in matematica ne consegue l’insegnamento. Eppure, credo che il valore della vita non possa contare così poco rispetto a quello attribuito alla propria realizzazione professionale.
Forse è proprio questo il dramma: la smania di strapparli quei bordi che ci rende infelici e insoddisfatti, sarebbe meglio essere tutti un po’ più Secco e meno Alice.
A forza di cercare di strapparli si finisce totalmente fuori strada sopraffatti dalle aspettative, dalle responsabilità e dai dolori.
Zerocalcare ti sbatte in faccia la realtà sin dall’inizio. Racconta un percorso di crescita per nulla coronato dal successo e da ciò che ci si era imposti. Tuttavia, non bisogna piangersi addosso perché anche le cadute sono importanti, è questo l’insegnamento dell’autore. É lo scambio di battute tra Alice e Zero a dircelo.
Le chiede quando passerà la cicatrice, ma lei gli rivela che non passerà perché «è una cosa che fa paura, ma è anche una cosa bella: è la vita».
Dopo sei episodi di suspense, attesa e riflessione è naturale domandarsi se un cambio narrativo arriverà, cosa succederà ancora, anche dopo un suicidio. Alla fine il cambiamento arriva, e quasi si rischia di non farci caso. Dopo sei episodi in cui Zero presta la voce a tutti i personaggi, tranne l’ineccepibile interpretazione di Valerio Mastandrea nei panni dell’Armadillo, ognuno dei presenti acquisisce la propria.
Finalmente Zero smette di monopolizzare la scena con i propri pensieri, e si lascia davvero andare ai consigli degli amici, alle loro voci, smette per qualche istante di pensare in maniera compulsiva e accoglie ciò che gli altri hanno da dire. Zero prende fiato. Deve smettere di sentirsi in colpa, di addossarsi il peso del mondo sulle spalle, perché non è tutto riconducibile a lui in maniera così egoriferita. Si è, appunto, soltanto fili d’erba in un immenso prato.
Ognuno ha il proprio posto, e prima o poi lo troverà, guardando al di là della precarietà, della paura del fallimento, dell’ansia di compiere un passo in avanti verso qualcosa che davvero si desidera.
Il cambiamento, quindi, arriva. Zerocalcare alla fine vuole solo rendere tutti un po’ più consapevoli del fatto che essere anonimi, in un prato di girasoli che fanno a gara per spiccare e levarsi, non è poi così male, anzi, forse essere solo dei semplici fili d’erba è ciò che può dare pace alla nostra esistenza.