La casa di carta
O dell’alienazione della libertà
«Qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» è un dispositivo, ci dice Giorgio Agamben. E un dispositivo ha sempre a che fare con il potere, ci insegna Michel Foucault.
Se partiamo da questi assunti, ci viene da pensare che sia vero che l’ultima stagione de La casa di carta finisca per proporre e concretizzare la realizzazione completa, con la sua relativa rappresentazione, di un dispositivo potentemente popolare e apparentemente rivoluzionario, ma in realtà intimamente reazionario.
Nella serie spagnola — che per la sua ultima stagione può contare su una produzione diretta da parte di Netfix, e non su una semplice distribuzione com’era stato per le precedenti, con tutto ciò che questo comporta in termini di standardizzazione del prodotto (e del fruitore) — è tutto molto chiaro, tutto molto didattico, tutto molto semplice.
Tanto da dimenticare quasi l’intenzione pop e tanto da diventare una sorta di riassunto populista e semplificato delle tensioni del secondo decennio del nuovo millennio, con una superficialità che, se posso, nemmeno Tlon oserebbe adottare — ma forse solo perché Tlon resta roba da preoccupato salotto buono mentre La casa di carta vorrebbe essere un manifesto della working class, tradendo comunque, in entrambi i casi, un’idea di proletariato piuttosto borghese.
Ciò che si dimostra, infatti, è che i cattivi, soprattutto in quest’ultima stagione de La casa di carta, sono davvero cattivi e quelli che non sono davvero cattivi si redimono e diventano davvero buoni, in un percorso narrativo che, oltre a essere a tratti francamente grottesco, risulta soprattutto fin troppo prevedibile e ripetitivo. Si annacqua e si ammorbidisce persino quella semplice ma felice intuizione, per quanto irritante quando reiterata addosso a Tokyo, di trasformare uno dei personaggi nel possibile motivo di deragliamento del piano perfetto, un’eventualità che, per altro, si profila statisticamente per troppo amore da parte del Professore, il quale, come Elio con Fetonte, lascia le redini a qualcuno non ancora pronto a reggerle, oppure, viceversa, si attua per troppo poco amore da parte del Professore stesso, un po’ come quando Lenin indicava in chiunque tranne che in Stalin il proprio successore.
Non basta, però. Ecco allora che anche i motivi alla base delle azioni della banda finiscono per appartenere in maniera quasi granitica a una sfera valoriale eticamente ineccepibile, tanto rivista e corretta da risultare esiziale per una banda di criminali, a raccontarci che non di edonismo si tratta ma — freudianamente, socraticamente — di eudemonismo, ché la felicità è un’aspirazione legittima dell’uomo e la vita ha come unico scopo il raggiungimento proprio della felicità.
Si finisce così per rassicurarsi di ogni azione, per togliere ogni ombra di cupidigia, di amoralità e quindi alla fine di umanità, tanto che lo stesso Berlino, l’unico personaggio realmente tridimensionale e tragico, diventa una carezzevole e lacrimosa parodia di se stesso, punteggiata nei tanti flashback che forniscono ossigeno a uno svolgimento in ogni caso retorico, come a dirci che comunque «andrà tutto bene» e che ne usciremo migliori, da questa rapina come dalla pandemia.
Perché il sistema è irrimediabilmente e incontrovertibilmente marcio, mentre i nostri protagonisti sono puri e fondamentalmente monolitici e si muovono, ferocemente astratti, dentro un sistema contraddittorio che, in maniera marxiana, si può serenamente inceppare attraverso l’esasperazione delle sue contraddizioni interne, come se fossimo ancora a metà dell’800 e dimenticando inoltre che siamo noi stessi un fattore attivo di quel meccanismo perverso che si chiama capitalismo, e provando, in menzogna, a radicalizzare una forma innocua di riformismo socialdemocratico, anche nelle e delle immagini.
Sia chiaro non è una disamina militante, la mia, né una lettura forzosamente politica, voglio solo sottolineare — dopo esseremelo chiesto, giuro!, con ansia e sudore per giorni e notti — come il successo e l’incidenza nell’immaginario collettivo di una serie tutto sommato inoffensiva come La casa di carta sia da rintracciare anche in quel tipo di rassicurazione che ci fa andare a letto tranquilli la sera, perché, indignandoci con risolutezza, abbiamo fatto il nostro dovere contro le discriminazioni di genere e altrettanto, scuotendo la testa con vigore, abbiamo fatto per i migranti che muoiono a decine nel Mediterraneo. Ci solleva da ogni forma di responsabilità vera, ché tanto cantiamo Bella Ciao con le lacrime agli occhi.
Lo dimostra anche la mancanza pressoché totale di sfumature nella costruzione dei personaggi, tranne che in quello di Berlino, a cui infatti, come già detto, ci si aggrappa disperatamente come a un bomber di razza, per quanto vecchio e appannato, quando la squadra non gira e si è sotto di un gol a dieci minuti dal termine. Berlino emerge, non a caso, soprattutto nei tanti momenti di stanca stucchevole che accompagnano relazioni declinate secondo canoni da soap opera, in cui può accadere di tutto e tutto ci si perdona, in cui anche i personaggi sono disumani dispositivi di potere, almeno finché — e sono i momenti migliori — si torna all’azione e alla pianificazione quinquennale, ché la rivoluzione è morta e Trockij ha la testa sfasciata da una piccozza.
La casa di carta è una consolazione e colloca la resistenza all’esistente, la capacità di immaginarsi altro e la possibilità di incidere sulla realtà, su un piano che non è più neanche metaforico e forse neanche così relativo al simulacro, quanto piuttosto afferente a una dimensione che, se non fosse riduttivo, vorremo definire onirica: una chimera, in sostanza.
E utilizza infine, oltre a tutte le forme descritte fin qui, anche la sospensione dell’incredulità per sminare e per normalizzare le possibilità, già scarse in realtà, di uno sguardo — e quindi di un mondo — davvero radicale, trasformativo e non (ri)conciliato.
In tal modo, questo dispositivo popolare che è La casa di carta risulta gradito e gradevole, perché cristallizza e glorifica la condizione di separazione propria della società industriale avanzata, in cui i rapporti (non solo) sociali, come diceva Debord, sono interamente mediati dalle immagini, e ogni “responsabilità”, quindi, viene scaricata e, nel migliore dei casi, collocata altrove.
E anche se resta comunque interessante la sua primigenia vocazione pop, in parte presente e ancora sporca e raffazzonata quel tanto che basta, come ci insegna Denver, a tenere lontani dalla serie i virtuosi dell’aperitivo impegnato, La casa di carta è e resta una forma di pensionamento anticipato, dal momento che, probabilmente, visto che non c’è più (ancora?) modo di riappropriarci delle immagini e di rifiutare la condizione alienante di spettatori, l’auspicio dell’autore de “La società dello spettacolo” non è mai stato così lontano: «il mondo è già stato filmato, si tratta ora di trasformarlo».