The Monopoly of Violence

The Monopoly of Violence

“Ma vedendo il video mi sono accorto che non era vero”.

Queste le prime parole che pronuncia uno dei cittadini intervistati in questo film. È un ragazzo che, durante le manifestazioni dei Gilet Gialli, nel novembre 2018, riguarda il video in cui venne ripreso dopo essere stato colpito in un occhio, il sinistro, perdendone la funzionalità per sempre. 

Il regista David Dufresne coinvolge direttamente i protagonisti di quelle stesse riprese del 2018, selezionando campioni di un girato dal basso, tra GoPro e più semplici (e maggiormente complesse) riprese fatte col telefono dei manifestanti stessi o anche di semplici passanti, e li fa diventare spettatori stessi delle loro proiezioni, dei loro fantasmi, del loro coinvolgimento nel monopolio della violenza, di cui ricordiamo che “lo Stato detiene l’uso legittimo”. Queste sono le parole di Max Weber, riprese in apertura dopo il titolo del film, e che aprono la pista per alimentare una serie di interviste in cui non vengono coinvolti direttamente solo i cittadini (all’ora manifestanti, o madri di vittime, o i poliziotti stessi) presenti di in quei giorni, ma anche storici, sociologi, politici, giornalisti e etnologi che dicono la loro, srotolando una fiumana di riflessioni mentre le immagini di disvelano in un atto di guardare collettivo.
In questo emerge il merito del regista, quello di non voler fornire risposte certe, l’inchiesta facile e giudizi manichei, ma di sollevare una cortina di nebbia, dove tutto è più opaco e ambiguo, invitando gli spettatori del film, come gli stessi davanti a quelle riprese, a entrare nello spettro della violenza con annesse tutte le implicazioni storiche, filosofiche e politiche che implica oggi per la Francia, e non solo, se guardiamo al ventesimo anniversario di Genova appena ricordato. 

L’immagine digitale e immediata di oggi diventa protagonista assoluta, rimette in campo – ribaltandoli e attualizzandoli – il concetto di Panopticon di Foucault, la spettacolarizzazione della società di Debord, fino alle osservazioni di violenza sistemica e simbolica di Bordieu.
E forse qui il limite del film, un eccesso di teoria che rischia un passo troppo accademico, ma in fondo poco didascalico, che si rifiuta di sottolineare chi siano le persone che durante il film prendono voce sulle immagini terribili di quei giorni.

Immagini che colpiscono, fanno arrabbiare, ci fanno reagire, che vogliamo capire, mentre i minuti scorrono, e soprattutto coinvolgono per tutta la durata.

logo

Related posts

Welcome to Chechnya

Welcome to Chechnya

di David France Quando si dice: «questa è una storia dell'altro mondo» è perché rimaniamo scioccati e fatichiamo anche a crederla vera. Eppure quella raccontata in Welcome to Chechnya è una storia dell'altro mondo ed è anche vera. Parla di coraggio, di forza e di resistenza (no, non...

The Earth in Blue as an Orange

The Earth in Blue as an Orange

Quando qualcosa prende forma in circostanze di eccezionalità, in luoghi inconsueti e in condizioni di estrema specificità, la sua narrazione non può che portare con sé il peso e la forza di tutti quei fattori che hanno contribuito alla sua mitopoiesi, alimentando quel processo per cui, quando...

Flee

Flee

«È il mio passato, non posso sfuggirgli e non voglio farlo». Una dichiarazione d’intenti così dolorosa e che si porta dentro una verità talmente scomoda che, a rifletterci bene, si fa fatica a respirare. Quella di Amin, protagonista di Flee, documentario animato di Jonas Poher Rasmussen...