Io resto di Michele Aiello

Io resto di Michele Aiello

Presentato nella sezione Grande Angle del 52° Visions du Réel di Nyon, Io resto di Michele Aiello è il primo documentario a spingersi fin dove solo i servizi di informazione televisiva ci avevano finora condotto. Le telecamere conficcate nelle stanze di un ospedale blindato, rapide seguono i movimenti del personale medico che resiste all’emergenza, registrano il silenzio della fine, i suoni della paura, l’emozione della vita che si difende, si salva, resta.

Brescia, marzo 2020. L’Italia è immobilizzata nell’isolamento pandemico. La Lombardia è la regione più colpita. L’infezione dilaga, il virus non si arresta, gli ospedali non sono adeguatamente attrezzati. L’ospedale della città sta dolorosamente affrontando il primo picco pandemico di Covid-19. Due operatori addensano il terribile affanno causato dall’emergenza sanitaria entro le inquadrature delle loro macchine da presa: osservano l’attività quotidiana di gestione di questa sconosciuta paralizzante pandemia e si lasciano avvolgere nell’intima connessione che lega i pazienti e il personale medico e infermieristico.

Nei corridoi lattei dell’ospedale di Brescia la videocamera di Michele Aiello indugia sui volti dissimulati dai dispositivi di protezione. Gli “angeli” foderati di microfibra verde, con guanti e visiere plastiche abbassate sul viso, si affrettano rincorrendo la speranza. E mentre li osserviamo raccogliere le forze per turni di lavoro interminabili, e tenere per mano un’umanità che respira a fatica, grazie alla delicata ma lucidissima narrazione di Io resto, sentiamo di poter tornare a sfiorare le dita delle persone che abbiamo perso, di coloro a cui avremmo voluto poter sorridere, anche da sotto una mascherina, o a cui avremmo voluto mandare un bacio, fosse anche attraverso un vetro.

Lo spettatore si riappropria dello spazio che in quei drammatici giorni non ha potuto calpestare e conquista il diritto di vivere il dolore collettivo ben dentro i propri occhi. Lì dove le strade vuote impedivano di arrivare e le porte chiuse frenavano lo sguardo, le telecamere si accendono per dirci che anche se non ci siamo stati, eravamo proprio lì accanto, tutti, distanti ma pronti a riabbracciare la vita non appena il virus ci avrebbe consentito di rompere le righe.

Io resto ci restituisce l’ingombrante fuori campo verso il quale non abbiamo potuto volgere lo sguardo, confinato dentro case ogni giorno meno rassicuranti. Dai nostri schermi televisivi filtravano immagini di città vuote, di ambulanze, d’umanità nascosta dentro materiale sterile. Ma si aveva sempre la maledetta impressione di poter osservare entro certi limiti: oltre questi ci avrebbero intimato di chiudere gli occhi, altro non avremmo sopportato.

Aiello realizza un’opera dalla perfetta essenza documentaristica, dall’approccio wisemaniano (pur con un girato realizzato in un arco temporale breve rispetto ai canoni del regista di “Near Death”), ovvero quella di esserci con l’occhio del cinema rimanendo invisibili. Qui ci muove in modo del tutto naturale tra le corsie, a fianco dei respiratori, preferendo in alcuni casi rimane sulla soglia delle stanze sigillate. La sua videocamera registra uomini e donne che lavorano, conversano, vivono quella drammatica verità, senza mai suggerire l’idea che l’operatore abbia potuto influenzare il loro agire o le loro parole. Sembra che la camera si sia accesa, e impigliata al camice di uno dei medici sia stata portata in giro senza che nessuno le prestasse più attenzione. Ma è l’esatto opposto. È il massimo dell’operato cinematografico. L’invisibile presenza del cinema.

Aiello non affida il ruolo di voce narrante, non sceglie i suoi protagonisti, non incarica nessuno dei volti che incontra di farsi portavoce di speranza. Lascia che la vita riprenda a fluire senza forzature, libera di interrogare la medicina, la religione, e l’umanità intera dell’inafferrabile senso delle cose.

Il suo documentario si configura come una raccolta di scene apparentemente non collegate tra loro se non per il fatto di svolgersi all’interno del medesimo luogo. Ma mentre le porte dell’ospedale di Brescia di aprono e si chiudono, perché da lì il virus non deve assolutamente uscire, e i medici e gli infermieri corrono lungo i bianchi corridoi per stabilizzare violente crisi respiratorie, le sirene delle ambulanze tramortiscono il cinguettio degli uccelli. E sono quei desolanti suoni assordanti a connettere ogni scheggia di vita con ogni brandello di dolore impresso su pellicola. Perché tutte le strade vuote erano percorse dalla stessa paura.


Aiello e il suo operatore divengono testimoni di una verità che nessuna sceneggiatura avrebbe potuto contenere: a dettare il ritmo narrativo era la diffusione del virus, ma a occupare il centro della scena era un’umanità che, nonostante il terrore di smettere di respirare, ha deciso di restare.

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