The Underground Railroad
In una delle tappe della sua fuga negli Stati Uniti di metà Ottocento, Cora Randall, la giovane protagonista di The Underground Railroad, interpretata dalla talentuosa attrice sudafricana Thuso Mbedu, è accolta nella Valentine Farm, una comunità di afroamericani dell’Indiana che gestisce una sorta di azienda vinicola.
Un’insegnante la fa approcciare alla lettura e all’analisi della Dichiarazione di Indipendenza americana spiegandole che quel documento è «come una mappa: puoi credere che sia attendibile, ma lo puoi scoprire soltanto testandola nella vita reale».
È una delle frasi più forti ed emblematiche tratte dallo straordinario e pluripremiato romanzo del 2016 di Colson Whitehead, The Underground Railroad, e riprese integralmente in uno dei dieci episodi del riadattamento seriale su Amazon Prime Video di uno dei registi contemporanei più ispirati e visionari della sua generazione, Barry Jenkins.
Il regista e sceneggiatore di Medicine for Melancholy e soprattutto di Moonlight e If Bealy Street Could Talk, ha ridato linfa al cinema afroamericano con storie avvincenti, una cura estetica e una poesia priva di quella retorica accomodante e consolatoria tanto cara ad altri prodotti del genere incensati da Hollywood nel secolo scorso.
La poesia e la magia non mancano in questa cruda favola moderna ambientata nell’America pre-Guerra Civile, negli anni segnati dal Fugitive Slave Act del 1850, approvato su pressione degli Stati del Sud con lo scopo di incentivare la riconsegna di schiavi liberati o fuggitivi prima che potessero raggiungere gli Stati del Nord o altre nazioni come il Canada e addirittura il Messico, in una rotta curiosamente inversa rispetto alle ondate migratorie degli ultimi decenni.
La ferrovia sotterranea è ovviamente un’invenzione letteraria, ma The Underground Railroad esisteva per davvero, dove la parola “underground” stava per “nascosto, clandestino”.
Si trattava infatti di una rete di strade nascoste, “safe house” e piccole comunità suburbane e urbane di abolizionisti che dal 1850, anno della creazione di questo utopico network, fino all’Emancipation Proclamation del Presidente Lincoln, aiutò nella fuga oltre centomila schiavi afro-americani.
L’odissea della giovane schiava in fuga inizia in Georgia, prosegue nelle due Carolina, in Tennessee, in Indiana attraverso drammatici colpi di scena, delusioni e incontri più o meno sgradevoli con antagonisti che rispondono ai topos della favola e del romanzo d’avventura classico, ma non sono privi di una certa complessità e profondità, come il tormentato cacciatore di schiavi Arnold Ridgeway e il suo piccolo e insolente aiutante afro-americano Homer la cui epopea procede su una storyline quasi parallela.
Il viaggio accidentato di Cara lungo i binari sotterranei della ferrovia è un viaggio proustiano attraverso l’insostenibile peso della sua memoria e della sua coscienza straziata.
Le tappe verso l’utopica ricerca e scoperta della libertà mettono a fuoco, tra riferimenti storici e spietate allegorie, un orizzonte sempre lontano e forse irraggiungibile.
La schiavitù e la segregazione non sono solo un lontano ricordo.
E non è un caso, del resto, che Barry Jenkins per non correre il rischio di farlo sembrare un capitolo chiuso e remoto della storia americana, abbia scelto come canzoni di chiusura di ciascun episodio tracce simbolo della musica black contemporanea, dagli Outkast con B.O.B. (Bombs Over Baghdad) a Kendrick Lamar con Money Trees passando per Childish Gambino con l’iconica This Is America e classici meno recenti come Wholy Holy di Marvin Gaye e How I Got Over di Mahalia Jackson, una canzone che parla di un viaggio di due donne afroamericane che sfuggirono a un posto di blocco armato di segregazionisti bianchi fingendosi possedute dal demonio, nella Georgia del 1950.
Come a testimoniare che, anche un secolo dopo, il pregiudizio e i suoi retaggi culturali più abietti sono tutt’altro che superati.