Old: tra morte, malattia e tempo
Nel 2019 avevamo visto M. Night Shyamalan chiudere con Glass la sua personale trilogia (iniziata con Unbreakable e proseguita con Split) dedicata ai supereroi; ora, a distanza di due anni, il regista indiano torna a quel genere horror che, mischiato al thriller e alla fantascienza, ha caratterizzato gran parte delle sua carriera (Il sesto senso, Signs, The Village giusto per citarne alcuni).
Old, tratto dalla graphic novel Castello di sabbia di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters, ha per protagonista una famiglia in vacanza in un meraviglioso resort (situato in un luogo non specificato), che viene invitata, insieme a pochi altri ospiti, a trascorrere una giornata in una spiaggia esclusiva. Tutto sembra procedere per il meglio, ma la scoperta di un cadavere e la successiva presa di coscienza che tutti stanno invecchiando velocemente senza motivo, al punto che la loro esistenza rischia di ridursi a un solo giorno, trasformano il luogo paradisiaco in un vero e proprio incubo da cui non pare esserci via d’uscita.
Shyamalan “gioca” con gli spettatori portando sul grande schermo le grandi e antiche paure della morte, dell’invecchiare, della malattia (diversi personaggi hanno malattie che si aggravano con il passare delle ore), paure che mai come in quest’ultimo anno e mezzo dall’inizio della pandemia sono tornate a popolare i nostri pensieri quotidiani.
Ecco che allora il film presenta tante sfaccettature a partire dal fatto che il tutto sia un grande exemplum fictum di una quarantena a livello globale (gli attori sono infatti di varie etnie e provengono da varie parti del mondo), costretti a stare in un (finto) locus amoenus, come lo sono state molte case, da cui non poter uscire (chi prova a lasciare la spiaggia sviene di colpo). Ciò provoca conseguenze a livello psichico (vedi Charles, il medico interpretato da Rufus Sewell la cui schizofrenia peggiora sempre più fino a terribili conseguenze) a cui si aggiunge l’angoscia, specie nei personaggi più giovani, di essere stati privati di anni di vita o di perdere improvvisamente il loro fascino: esempio lampante è Chrystal (Abbey Lee), la moglie del medico, che dal momento in cui invecchia non vuole che gli altri la guardino (quasi come se il regista proseguisse il lavoro del personaggio creato per lei da Nicolas Refn in The Neon Demon).
Una situazione che ricorda, pur con le dovute differenze, quella vissuta ne L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel: in quel caso, i protagonisti alto-borghesi non riescono a uscire da una casa. Ma se nel film di Buñuel la soluzione per uscire sta nel mettersi nelle posizioni con cui si era entrati, a testimonianza di una borghesia che alla fine non cambia mai, in Old questo tempo che scorre velocemente ha anche un rovescio della medaglia che porta alcuni personaggi a cambiare la proprie visioni sulle cose, proprio come accade a Guy (Gael Garcia Bernal) e Prisca (Vicky Krieps), che da coppia sul punto di divorziare, finiscono per riappacificarsi accettando il proprio destino e la loro figlia, Maddox (Thomasin McKenzie), che si ritrova in poco tempo da bambina a adolescente: «Ora vedo le cose con più colori, prima ne avevo pochi». Il film dunque è anche una riflessione sul tempo, sulle fasi della vita, sul nostro cambio di prospettive del mondo a seconda dell’età.
Shyamalan torna a grandi livelli, come – va detto – non capitava da tempo, con un film ben diretto, anche se non sempre armonico, girato per la maggior parte di giorno, en plain air, e con grandi interpreti. Un film dove la natura, come in E venne il giorno (2008), ha un ruolo chiave e in cui l’uomo (e lo spettatore) è “costretto” a fare i conti con i grandi temi dell’esistenza, con un finale che pone questioni tanto attuali quanto divisive.