The Father
Nel 1906 a Tubinga si tenne una conferenza psichiatrica in cui un neuropatologo, Alois Alzheimer, presentò il caso di una sua paziente, Augusta D., da lui ritenuto una nuova forma di demenza. La Convenzione si concluse senza nessuna domanda e poco interesse da parte dell’allora comunità scientifica.
Un giovane ricercatore italiano, Gaetano Perusini – collaboratore di Alzheimer e parte meno famosa del binomio che ha dato il nome alla “malattia di Alzheimer-Perusini” – proseguì successivamente gli studi e si rese conto, con ottanta anni di anticipo, della presenza nel cervello dei malati di «una specie di cemento che incolla le fibrille insieme».
Oggi quel “cemento” attanaglia la mente di 47 milioni di persone. Abbiamo fatto talmente tanto esperienza di questa malattia e della sua narrazione, che è difficile riuscire a trovare un modo diverso di raccontarla, avulso dalla compassione e dalla pietà che proviamo quando entriamo in contatto con la storia di un malato. Florian Zeller col suo The Father riesce radicalmente a farci cambiare punto di vista. Grazie a un’interpretazione magistrale di Anthony Hopkins, entriamo in una mente prigioniera dell’Alzheimer, in cui si confondono visi, momenti e spazi, in cui non ci sono appigli né punti di riferimento. Ci si sente perduti e confusi mentre fatichiamo a comprendere il ruolo dei diversi personaggi che ruotano attorno ad Anthony, il protagonista del film, mentre insieme a lui ci perdiamo per stanze e corridoi sempre diversi, mentre vaghiamo in quel labirinto che è prima di tutto spaventosamente interiore, mentre la musica di Einaudi ingigantisce quel vuoto che si viene man mano formando.
Rimaniamo spiazzati, esattamente come lui, quando non capiamo chi vive in quella casa, quando anche i dettagli più significativi, come un quadro su un camino, non ci permettono di orientarci. Ci sentiamo persi come Anthony che cerca disperatamente il suo orologio, quello che perde ogni giorno, perché altrimenti – come ripete – non saprà più nemmeno che ore sono, in un mondo senza tempo, in cui non si capisce quando è mattina o quando è sera e non si ha nessuna coordinata temporale.
In un mondo i cui i ruoli si invertono e un padre si trasforma nel figlio di sua figlia (interpretata da una sempre meravigliosa Olivia Colman) e ci colpisce allo stomaco con la sua vulnerabilità, quando chiede a quella figlia di non lasciarlo solo, quando la ringrazia dolcemente dopo averlo aiutato a infilarsi un maglione o quando ha bisogno della sua mamma.
Mi sembra, però, che quello che si prova di fronte ad Anthony non sia compassione, ma una sana e profonda tristezza, frutto di un’immedesimazione che è difficile evitare. Non ci dispiace solo per Anthony, ci dispiace per noi, per la nostra misera condizione, che ci viene brutalmente messa davanti nel momento più buio di Anthony, quando ha bisogno che gli venga ricordato chi è e si sente “come se stess[e] perdendo tutte le [sue] foglie”, nel momento in cui è consapevole di non essere in grado di comprendere la realtà che lo circonda e sprofonda nella disperazione più nera e l’unico modo per calmarlo è scandire una sicura e confortante routine: «Prima ci vestiamo, poi andiamo a fare una passeggiata nel parco […] poi torniamo a mangiare qualcosa…».
Credo che la grandezza di questo film stia nella capacità di darci uno spazio di autentica disperazione prima di tornare alla nostra routine.