“Nomadland” o della mancanza del conflitto
Vorrei premettere subito una cosa: Nomadland (Chloé Zhao, 2020) è a mio modo di vedere un film contraddittorio, ben oltre le intenzioni della sua regista, e lo è perché è un film complesso, pur nella sua sostanziale e classica semplicità. Non è un prodotto che sia possibile liquidare con qualche battuta, argomenti apodittici o un po’ di scadente ironia, per cui cercherò di trattenermi, ché sono i tre campi in cui do il meglio di me, di solito.
A me, lo dico chiaramente, Nomadland non ha convinto per niente; di più: lo trovo un film profondamente reazionario, perché, pur essendo un film dialettico, è un dispositivo totalmente privo di conflitto. Mi pare evidente, infatti, come nella costruzione narrativa (ma non esclusivamente, perché lo stesso potrebbe dirsi del suo senso) non solo non esista un conflitto interiore che venga esteriorizzato (o un conflitto esteriore che sia una rappresentazione interna), ma inoltre, in maniera altrettanto evidente, che il film si (rin)tracci solo in un lungo, compiaciuto, rassicurante, auto-indulgente, assolutorio viaggio nel proprio ombelicale dolore, estetizzato e innocuo, e non per umana mancanza di forze ma per espressa volontà di esibizione della miseria.
Nomadland finisce per essere uno zoo antropomorfo, e perciò privo di dinamica, ossia un prodotto da salotto buono, sostanzialmente borghese nel suo giustificare l’esistente e nel suo accettarlo per irresistibile, che edifica il sistema non per stanchezza esistenziale ma per scelta complice, che struttura la pratica del dolore come forma di consolazione per aderire a ciò che si pensa di essere e di essere sempre stati, senza eccezioni di sistema, senza errori, naturalmente sussunti dallo stato delle cose.
Non è rassegnazione, è accondiscendenza. Ce lo dicono le musiche di Einaudi, programmaticamente uggiose e smaccatamente “romantiche”, ce lo dicono gli spazi e gli orizzonti del film, spazi che vorrebbero essere (amabili?) resti e forse rappresentare le rovine personali, umane, dei personaggi che li attraversano e li abitano, e che finiscono invece per essere poco più che simulacri inutili e autoreferenziali, roba da panoramica con l’iPhone o declinati per occupare uno spazio nel feed su Instagram, a creare un’aura di malinconica maledizione con il filtro cool.
Nomadland è sconnesso da quel reale dolente che vorrebbe raccontare, perché ne fa una sintesi, ne fa merce da supermercato, ne fa ostentazione da vetrina, ne fa argomento da aperitivo nel locale nuovo in centro a Manhattan che fa i dj set fichi BLM, diventa una forma di scopofilia che sfrutta una “classe”, facendola esibire al guinzaglio, così che non sporchi troppo, e fingendosi parte di essa.
Questo accade proprio perché Chloé Zhao trascura, rimuove, anestetizza il conflitto — immanente, irrinunciabile, autentico — che tale antitesi porta con sé, si compiace della propria pretestuosa vicinanza, come una mosca sui cadaveri, per accreditarsi scuotendo la testa e arricciando le labbra con gli occhi stretti a simulare pathos, finendo per non spostare nulla; e, personalmente, trovo tutto questo imperdonabile.