Un altro giro
Il maldestro e sterile tentativo di dare delle etichette di genere all’opera di Thomas Vinterberg non è altro che un infruttuoso sforzo di classificare un prodotto che trascende le dinamiche narrative attraverso un pretesto, che non si pone l’obiettivo minimo di raccontarci una storia, ma che ha l’intento di indagare l’uomo e la sua natura, di investigare il suo rapporto con il peccato e il senso di colpa, di quantificare il peso delle scelte e delle loro conseguenze, dipingendo un affresco che riesce a restituire la vertigine dell’instabilità.
In Un altro giro l’utilizzo e l’abuso di alcol (con lo scopo di verificare l’attendibilità di una teoria para-scientifica) sono l’occasione per rovistare dentro sé stessi attraverso uno sguardo estatico e privo di giudizio, ma anche il modo per relazionarsi in modo diverso alla vita (professionale, relazionale o sentimentale) e alla scelta, sollevati dalla responsabilità che possiamo scaricare sullo stato di alterazione.
Vinterberg tratteggia l’uomo e la sua relazione con il futuro (quello che vorremmo e quello che avremmo voluto) attraverso due sguardi diversi, alla ricerca della loro sintesi e del loro punto di incontro: attraverso gli sguardi giovani di chi si trova di fronte alla scelta (e quindi alla rinuncia e alla perdita), all’ignoto, a ciò che non è ma potrebbe essere, di chi si sente afflitto da quel sentimento di angoscia kierkegaardiana che colpisce chi si trova di fronte alla possibilità e alla sua indeterminabile conseguenza; e attraverso lo sguardo adulto di chi la rinuncia l’ha già affrontata e mai elaborata, e vive alla ricerca del momento in cui la scelta ha causato il fallimento e la conseguente insoddisfazione, di chi si sente inappagato e dalla vita che ha deluso le sue aspettative e tradito i suoi desideri.
Il passato dogmatico è un vecchio ricordo e, nonostante lo si percepisca come un elemento formante dell’estetica del regista danese, la sua capacità di «trarre fuori la verità dai suoi personaggi e dalle sue ambientazioni» (come giurava di fare nel manifesto del 1995) è rimasta inalterata, ed è grazie alla prossimità quasi fisica con i suoi personaggi che riusciamo a cogliere nei loro volti ogni sfumatura di dubbio e preoccupazione, ma anche il sollievo della rinuncia al conflitto interiore una volta accettata la natura della propria fallibilità, e ad apprezzare la sintesi di quegli sguardi proiettati sul passato e sul futuro, che si uniscono in una danza catartica e rivelatrice che prepara l’uomo a (ri)tuffarsi nella vita.