Cronache festivaliere
Il quartier generale di BILLY è nella parte ovest di Kreuzberg, e — grazie al già leggendario autobus M41 (che compare dal nulla quando meno te lo aspetti) — raggiungere Potsdamer è veramente molto veloce e semplice.
Destreggiarsi tra i settecento programmi della Berlinale — che quest’anno, rischiando una rivolta che è montante e già piuttosto evidente dai messaggi lasciati nella “bacheca dei consigli”, ha deciso di chiudere quell’app che in passato ha salvato molte vite, comprese le nostre — è invece un po’ più complesso, per cui diventa sistematico perdersi film, conferenze stampa e proiezioni speciali e magari la vita in generale. Ma noi non ci scoraggiamo e, mentre diluvia, cominciamo a macinare cinema, ché qualcuno deve pur farlo.
Contrariamente a quanto accade in Italia, qua la gente si bacia e si scambia secrezioni corporali incurante del coronavirus e della nostra provenienza («if you have to die, you die», ci dice il cameriere musulmano del Lindebrau, il locale in cui mangi, bevi e spendi 8 € per una mastella di vino bianco), ché nelle sale ci sono 40 gradi centigradi al minuto e potresti vedere i film in mutande senza sentirti in grande imbarazzo.
Cominciamo allora con i film in concorso, e cominciamo male. “Siberia” di Abel Ferrara è, in breve, un esercizio onanistico di quelli clamorosamente inutili, è una masturbazione fatta male (cosa c’è di peggio?) che spinge metà sala — in una delle due visioni riservate alla stampa — a lasciare la proiezione prima della fine del film e l’altra metà a ridere di cose che teoricamente non dovrebbero far ridere. Defoe è come sempre generosi e ineccepibile, ma i deliri psicoterapeutici e autoanalitici di Ferrara sono francamente poco interessanti, per quanto visivamente suggestivi, e sicuramente, almeno per chi scrive, soporiferi, quando non irritanti.
Non va meglio con il primo documentario di Forum, “After the Crossing” di Joël Richmond Mathieu Akafou, che, con l’oramai consueto e stantio paradigma osservazionale, propone una storia non solo già vista, ma anche ampiamente ricostruita e persino forzata, quasi posata. L’importante storia di un migrante ivoriano, infatti, che dall’Italia tenta di raggiungere la Francia, risulta in questo modo posticcia, fastidiosa e residuale, rispetto alla necessità narrativa — urgente — di raccontare la condizione di arrivo e permanenza di un’umanità che resta periferica e sconfitta. Unico elemento di vero interesse del documentario, è l’evidenza — per quanto narrata senza coscienza — di una mancata consapevolezza, da parte di questa stessa umanità, della propria condizione (non tanto e non solo di sfruttamento quanto) di potenziale e irresistibile frattura e sovvertimento rispetto al sistema (capitalistico) esistente e trionfante, un sistema che si finisce in realtà per accettare, (non solo ma anche) nel momento in cui ci si rimette, fatalisti, nelle mani di un dio che, lungi dall’essere morto, è veicolo di controllo ed edificazione di una stasi sociale vissuta come intollerabile solo in termini teorici. Amen amen amen.
Intanto si parla già di “Undine” di Petzold come del probabile Orso d’Oro. Ne siamo lieti, a prescindere, anche se ancora non l’abbiamo visto.