Un cerchio che si chiude: La prima notte del giudizio
La prima notte del giudizio di Gerard McMurray è il quarto capitolo della serie thriller – horror – fantascientifica de La notte del giudizio, progetto avviato nel 2013 con la regia di James DeMonaco, autore anche dei due episodi successivi (Anarchia – La notte del giudizio; La notte del giudizio – Election Year), e sceneggiatore invece di questa quarta parte. Quest’ultimo è un prequel dei tre episodi precedenti (ambientati in America fra gli anni ’20 e ’40 del 2000), e ci racconta come nasce l’idea di base dell’intera saga, cioè “Lo Sfogo”: un periodo annuale della durata di dodici ore in cui ogni crimine, compreso l’omicidio, diviene legale al fine di abbassare i tassi di criminalità, far sfogare e “purificare” (questo il temine usato da Skeletor, il villain del film di McMurray) le persone e, soprattutto, eliminare i deboli e i poveri dalla società (abbassando così anche il tasso di disoccupazione).
Ne La prima notte del giudizio veniamo a sapere che l’America ha subíto una crisi economica peggiore di quella del 2008, che l’ha messa in ginocchio, facendo sì che a vincere le elezioni sia il neo partito dei Nuovi Padri Fondatori, il quale decide di avviare un “esperimento sociale” che concede il libero sfogo della propria aggressività all’interno della comunità nera di Staten Island per la durata di una notte, con l’intento di ridurre la criminalità. Ai partecipanti viene offerto un compenso base di 5.000$, con la possibilità di incrementare l’importo nel caso di una partecipazione molto attiva (più grave è il crimine commesso, più alta è la ricompensa). L’esperimento riscontra una forte adesione, soprattutto a causa del fatto che la maggior parte delle persone di Staten Island è povera e quindi ha bisogno di denaro; tuttavia, non manca chi si oppone fermamente alla cosa, come l’attivista politica Nya (Lex Scott Davis), protagonista del film, di cui seguiamo le vicissitudini durante la notte dello “Sfogo”, insieme a quelle del fratello Isaiah (Joivan Wade) e del gangster Dimitri (Y’Lan Noel), ex ragazzo di Nya intento unicamente a difendere i suoi interessi, fino al momento in cui si rende conto che la situazione sta precipitando.
L’opera, che – va detto – dei quattro film sulla saga è l’episodio meno riuscito, è comunque buona sotto tutta una serie di aspetti. In primo luogo, per gli amanti del genere è un valido lavoro di intrattenimento, che regala vari momenti di tensione gestiti con un buon ritmo. Vi sono scene ben girate, specie quella del combattimento di Dimitri lungo le scale (un rimando al film The Raid), che vale da sola il prezzo del biglietto. L’utilizzo poi di alcuni effetti, come le lenti a contatto colorate (date ai partecipanti dello “Sfogo” come localizzatori per seguire ogni loro movimento) che suggeriscono l’idea di persone “indemoniate”, è un altro valore aggiunto.
I più cinefili, inoltre, non possono non aver notato quanto sia rimasta immutata “l’impronta Carpenteriana” che aveva caratterizzato tutta la trilogia di DeMonaco: un’impronta data da elementi tipici del lavoro del maestro John Carpenter, come un forte senso politico, la tendenza a girare scene di guerriglia dentro una singola stanza o in strada, ed il ruolo di spicco rivestito dalle persone di colore (basti pensare a film come Distretto 13 – Le brigate della morte, 1997: Fuga da New York, Essi vivono, La cosa).
Questi aspetti sono tutti amalgamati ne La prima notte del giudizio, in cui ritroviamo anche alcune scelte di sceneggiatura dei film di DeMonaco, come ad esempio la rivelazione che è lo stesso governo americano a pagare soldati mercenari da infiltrare tra i partecipanti dello “Sfogo” perché ne uccidano il più possibile. L’opera è dunque una summa di quanto già visto negli episodi precedenti, ma allo stesso tempo contiene una sua identità, un suo messaggio, un’ulteriore riflessione: «Lo Sfogo dura solo un giorno, tu invece Dimitri uccidi questa città 364 giorni l’anno» dice Nya. Una frase rivolta in verità a tutti noi, perché non è Dimitri il solo ad essere colpevole: tutti quanti, infatti, siamo sempre più in balìa del nostro egoismo, privi di empatia, malati di un’indifferenza verso ciò che ci circonda tale da essere tutti responsabili della rovina del mondo.
Ecco allora che il lavoro di McMurry ci appare come la chiusura del cerchio di una saga giunta (forse?) al suo ultimo atto.