Cane mangia cane: voracità e miseria umana dai toni pulp
La pellicola, traduzione cinematografica dell’omonimo romanzo di Edward Bunker, è l’ultima fatica di Paul Schrader, nome che gli amanti della settima arte conoscono molto bene. Il noto sceneggiatore di Taxi driver, Complesso di colpa e regista di American Gigolò e Il bacio della pantera torna dietro la macchina da presa firmando un’opera dalle tinte pulp e dal ritmo frenetico. Congedandosi dalla crudezza narrativa di Bunker, Schrader costruisce una pellicola che alterna colori pop e psichedelia a immagini violente e ironia crudele.
Los Angeles è scellerato teatro delle vicende di tre criminali di basso calibro divenuti amici a seguito del periodo trascorso in carcere: Nicolas Cage è Troy, la guida carismatica, Willem Dafoe veste i panni di Mad Dog folle ed impulsivo, e Christopher Matthew Cook è Diesel, l’esecutore freddo e taciturno. Alle prese con quello che potrebbe essere il loro ultimo colpo, i tre personaggi rincorrono la possibilità di reinserirsi in società, sia questa l’onesta realtà legale o quella criminale e delittuosa poco importa. Saranno la natura irriducibile dei protagonisti e l’emarginazione derivante dallo stigma di ex galeotto a condannarli ad un fallimento annunciato. Dopo gli anni di reclusione, a libertà ritrovata, usciti da quello che viene definito come un bidone dei rifiuti, i tre sembrano non saper far altro che riprendere le loro vecchie vite fatte di crimine, droga e prostituzione mentre i tentativi di redenzione a cui spesso fanno appello rimarranno solo abbozzati.
A fare da sfondo al desiderio di cambiamento, che si fa – con il procedere della narrazione – illusione, vi è un ritratto di un’America in cui imperversa il dibattito sulle armi e sulla questione razziale, in cui un’esistenza al di fuori del circuito dell’illegalità non è concessa a chi non ha denaro. La redenzione appare solo come un lontano obiettivo a cui tendere ma Troy, Mad Dog e Diesel sembrano avere consapevolezza dell’impossibilità di raggiungerla: una volta che sei stato dentro restare fuori è quasi impossibile.
I personaggi di Schrader annegano così nella brutalità e nello squallore e nemmeno il commosso pentimento di Mad Dog può persuadere lo spettatore: l’irrefrenabile ferocia che lo ha spinto nelle prime scene a liberarsi di “ingombranti” ostacoli in modo poco convenzionale viene riscattata in un lungo dialogo in cui Dafoe esprime il suo ravvedimento, ma sebbene le sue parole invochino un nuovo inizio nel mentre lo vediamo dedito a trasportare un cadavere e maldestramente scivolarne sul sangue. Così i protagonisti di questa pellicola sono uomini perduti, privi di una qualsivoglia grandezza, colpevoli ma allo stesso tempo vittime non solo di un destino che non sa loro offrire vie di fuga, ma anche di un sistema che non smette di far loro scontare la medesima pena, imponendo uno stato costante di agitazione violenta.
Schrader ci regala un film dalla trama indubbiamente semplice e dall’esito prevedibile ma capace di coinvolgere grazie all’utilizzo di un montaggio dinamico che alterna fast motion a rallenty, colori saturi ad un nostalgico bianco e nero. La potenza espressiva delle ultime scene riesce a smorzare i toni da black commedy e ad affievolire il carattere grottesco della narrazione che lasciano ora campo ad amare riflessioni filosofiche.
Se Robert De Niro in Taxi Driver parlandoci degli animali più strani che di notte animano le strade di New York, quali puttane, sfruttatori, drogati e spacciatori invocava un diluvio universale che avrebbe ripulito le strade per sempre i protagonisti di Cane mangia cane sembrano muoversi velocemente senza una direzione precisa e privi di propositi di cambiamento così radicali.
Travis Bickle divenuto simbolo cinematografico dell’alienazione metropolitana è alla frenetica ricerca di uno scopo, di una missione da compiere, desideroso di avvicinarsi agli altri per quanto la realtà osservata dallo specchietto retrovisore lo disgusti, deluso dalla natura umana che egli avverte come fredda e insensibile, per tentare di evadere dalla gabbia di solitudine in cui è emarginato è istigato alla nota dichiarazione di guerra davanti allo specchio che lo condurrà a vestire i panni del vendicatore prima del tentativo di abbandonarsi alla morte.
I protagonisti dell’ultima pellicola di Schrader non hanno alcuna vera aspirazione o intenzione, ciò che importa loro è scommettere fino a quando sarà loro concesso sulla possibilità di rimanere liberi. Consapevoli dell’irrealizzabilità di tale opzione decideranno di spingere il piede sull’acceleratore mettendo in gioco la loro stessa vita. Il nichilismo che sottende alle loro gesta è tale da farli apparire criminali improvvisati e grotteschi, incapaci di perseguire non solo le velleità di cambiamento ma anche i loro stessi propositi criminali.
“Non si può dire che io volessi a tutti i costi giustizia. Volevo ciò che volevo. Come tutti noi. Il resto sono solo parole”. Così ci congeda Troy/Nicolas Cage rammentandoci la bestialità dell’essere umano, pronto a sbranare chi intralcia il suo cammino, anche qualora questo non avesse una precisa destinazione.