Arrival, analisi di un’analisi antropologica
Cosa rende un film di fantascienza un film diverso da altre decine di pellicole che, con lui, condividono la semplicità di un plot che è così comune alla cinematografia del genere, tanto da essere richiamato, trasversalmente e costantemente, dagli anni ’50 fino ad oggi? Di più: cosa lo rende uno dei migliori film dell’anno?
Forse perché, molto semplicemente, Arrival ha tutto ciò che si chiede al cinema o, meglio ancora, ne racchiude l’essenza più profonda, costruendo la sua struttura sul cinema stesso e su tutti quei topoi classici del mezzo espressivo, riuscendo a non cadere nella prevedibilità e nella banalità, riuscendo a strizzare l’occhio al blockbuster, rimane a tutti gli effetti un film d’autore, sia nella sostanza che nella forma (i richiami all’estetica e all’estetismo di Malick, nel breve prologo iniziale, ne sono la prima conferma). Denis Villeneuve, che di Arrival è il regista, si mostra all’apice della sua maturità artistica riuscendo a trasformare un film dalla trama minimale in un perfetto esempio di come il cinema possa riuscire, usando come innesco la fantascienza e l’alieno, a raccontare una storia che invece riflette sulle più classiche tematiche esistenziali e psicologiche, sul timore di ciò che non conosciamo, sulle difficoltà di comunicazione e sulle responsabilità che derivano dalla conoscenza, in sostanza su quanto di più umano si possa immaginare.
Fin dalle prime scene ci si accorge di essere trascinati in un film che sarà molto più di un semplice film di fantascienza o di avventura in cui le aspettative dello spettatore rimangono quelle classiche del viaggio dell’eroe: Villeneuve riesce a indirizzare il focus della storia e dell’attenzione, da problematiche globali, fino a quelle più intime e personali, fisiche e metafisiche, e viceversa, lasciando inalterato il livello di tensione e pathos per tutta la durata della visione.
Per la comunanza dei temi trattati, per la complessità narrativa e per la scelta della metafora di genere per esporre temi più intimi e politici, Arrival si inserisce in quel filone della fantascienza in cui si possono classificare anche film come Incontri ravvicinati del terzo tipo, Interstellar o District 9. Soprattutto gli ultimi due, per ragioni di tipo anagrafico ed estetico, sono quelli che si prestano maggiormente ad un’analisi comparativa: se il limite del film di Nolan, come già abbiamo avuto modo di dire, è quello della totale mancanza di coinvolgimento e di mistero cinematografico, e il film di Blomkamp si prefigge di essere metafora di una particolare situazione storico-politica, in una particolare regione del mondo, Arrival è la perfetta sintesi di entrambi e riesce ad accendere la nostra attenzione sugli aspetti più reconditi dell’animo umano, a puntare il dito sulla situazione politica internazionale, a toccarci nel profondo perché è nel profondo che cerca di scavare; perché le paure, i dubbi e le speranze, che affliggono Amy Adams quando appoggia la mano sul grande vetro che la separa dall’alieno (come metafora di un grande schermo cinematografico che divide il reale dall’immaginario), sono le stesse che affliggono ognuno di noi.