The Wolf of Wall Street, o della fine della tragedia
Martin Scorsese ha fatto un altro film. Martin Scorsese ha fatto un altro film con Leonardo DiCaprio. L’ha fatto l’anno scorso, Martin Scorsese, e ha fatto il film più scorsesiano che potesse fare – e ora può anche non fare più nulla.
Perché The Wolf of Wall Street è Scorsese puro e amplificato, perfetto e geometrico, inimitabile e compiuto. Girato così (pieno di discontinuità), montato così, recitato così, direi pregato così. E per questo, sostanzialmente, insopportabile: peloso come solo il cattolicesimo sa essere, flagellante come un adepto dell’Opus Dei, in cerca di redenzione come un peccatore pentito.
TWoWS è infatti una preghiera, o – meglio – una confessione: caduto l’alibi del contesto (come dice l’investigatore dell’FBI: “lei è diverso”), archiviata – con la normalità – la scusante criminale, sciolto lo stato di necessità in una propensione universale, TWoWS ci dice, ci urla come un DiCaprio assatanato e strafatto, che l’uomo – ogni uomo – è peccatore e bisognoso di redenzione per il solo fatto di essere uomo. Perché l’uomo – in quanto tale – ha in sé i germi della colpa, perché esistere è desiderare ciò che si vede, è contagio di ciò che si desidera, e il desiderio se, da un lato, è già in sé peccaminoso, dall’altro non può che anelare a quella malintesa idea di felicità che il benessere sfrontato e la ricchezza arrogante generano in maniera quasi deterministica.
Ma l’affresco di Scorsese è strepitoso, straordinario, irresistibile nelle sue quasi di tre di ore Ascesa e Caduta, di Delitto e Castigo, di Peccato e Redenzione, di Perdizione e Salvezza, di Tentazione e Liberazione, di Deserto e Acqua Benedetta. E la chiosa, la metropolitana pulciosa del ritorno a casa dell’onesto, dei corpi slabbrati e in decadimento, dei vestiti lisi e scuciti, là dove si annidia, pernicioso, il serpente con la mela, non è altro che la conferma della gloria della rettitudine e una falsa apertura al dubbio – tanto smaccata da risultare quasi falsa. Qui c’è tutto il cinema di Scorsese, il suo moralismo vissuto come un abito troppo stretto, la suggestione della perdizione, la vertigine della colpa, quella colpa che ci mette al centro del mondo e che ci salva dalla solitudine e dall’abbandono.
Ebbene, TWoWS è un film straordinario, non c’è dubbio. Eppure, vorrei dire, noi siamo finalmente da un’altra parte, cazzo; e anche se abbiamo voglia di rivederlo cento volte, l’ultimo film di Martin Scorsese, lo fare(m)mo come si rivede un periodo scellerato e fondante della nostra adolescenza, come si ha nostalgia degli errori, e di quando potevamo cambiare il mondo. O, forse in maniera più corretta, lo rivedrem(m)o come quando si ha una ricaduta, come quando le forze retrive e reazionarie del nostro sguardo prendono il sopravvento, come una resistenza alla crescita. In questo senso, e solo in questo senso, Martin Scorsese è necrofilo come una scultura di Wildt, e quindi, pur nella sua magniloquenza ipercinetica, è immancabilmente, drammaticamente umano.
Un capolavoro d’odio e ipocrisia.