Le streghe di Salem
The Lords of Salem, USA/UK/Canada, 2012, Rob Zombie (R. e Sc.)
È significativo che il titolo originale dell’ultimo film di Rob Zombie sia stato virato al femminile per la distribuzione italiana, trasformato, da The Lords of Salem (I Signori di Salem), in Le streghe di Salem. Certo, è lineare con lo sviluppo del film e con la sua trama; certo, rimette al centro della storia le vere protagoniste; verissimo tutto, però, contemporaneamente, finisce inevitabilmente per essere sospetto, rispondendo a esigenze differenti, diremmo meno nobili, sicuramente più stereotipate da un punto di vista di genere, e tradisce, di base, l’impostazione intrinseca del film. Che vuole essere, ed è, qualcosa di più e di diverso di un semplice, commosso e a tratti violento omaggio al cinema degli anni ’70, segnatamente a quello d’ispirazione più o meno diabolica. Si può infatti azzardare che Le streghe di Salem smarca, forse definitivamente, il regista americano – e il suo cinema – dalla deriva derivativa, dalle memorabilia dei film precedenti, magari gonfi di citazionismo a tratti ostentato e forse, di tanto in tanto, compiaciuto. Zombie continua a masticare un cinema che non c’è più, ma lo risputa nuovo e aggiornato, quasi fosse una versione horror di Tarantino, ma in realtà ponendosi ancora oltre l’ipertrofia cinefila del regista di Django Unchained. La trasformazione linguistica, l’update intrinseco della pellicola di Zombie si invera in un’opera che, pur non privandosi dell’elemento squisitamente horror, restituisce, in una suggestione gotica che si insinua in ascendenze polanskiane, un’atmosfera degenerata e putrida, in cui il disagio siede e cammina a fianco di un corpo cinema mai così centrale, e decadente, quale quello incerto e ingolfato di una Sheri Moon ambigua e trascinante. Lontano dal tripudio mostruoso e sordido delle opere precedenti, il film di Zombie oscilla tra – ci si passi l’ossimoro – un orrore rarefatto e “strategico” e la perenne e pervasiva inquietudine di un percorso deterministico e allucinato, in cui la bellezza del Male è la bellezza stessa del cinema, dove i meccanismi creativi e, in parte, visivi divergono da quelli dei padri e dai maestri pur non potendo prescindere da essi. E poco conta l’imperfezione o l’esplicitazione della dinamica narrativa, perché la citazione si fa rielaborazione, sciogliendosi e rigenerandosi, e perché il cinema, almeno quello di Zombie, tenta uno scarto quasi semantico, in un’epoca di remake mascherati e di riciclaggi di bassa fattura.