Un borghese piccolo piccolo. Evoluzione naturale
Un borghese piccolo piccolo, Italia, 1977, Mario Monicelli (R.), Vincenzo Cerami, Sergio Amidei, Mario Monicelli (Sc.)
Il film inizia con una tranquilla giornata di pesca, che si conclude con quella che è fondamentalmente la crudele uccisione in primo piano di una creatura vivente. Quella stessa creatura è già un campanello d’allarme, a significare: guardate, quest’uomo “normale” è capace di ammazzare a sassate (e non importa che si tratti soltanto di un pesce destinato alla padella), così come sarà capace di spaccare la faccia a un ragazzo con un crick. La straziante immagine, anormale accento di una normale abitudine, di Giovanni che attende l’assassino di suo figlio facendo il cruciverba, è il preludio all’atroce inferno quotidiano che quest’uomo (“normale”, ricordiamolo) sta preparando per quel ragazzo indissolubilmente legato al ricordo del figlio, nella sua mente l’altra faccia della stessa medaglia: a questo è forse dovuto l’inspiegabile gesto di pulirne tanto metodicamente, quasi con affetto, il volto rigato di sangue. È terribile seguire tutti gli indizi, più o meno sottili, che Monicelli e Cerami disseminano sul percorso del protagonista e dello spettatore, nonché la capacità del regista di illustrare, con manifesto sconforto e con una sequela quasi insostenibile (nella sua verità) di luoghi comuni, l’anima di un intero popolo, su cui ormai non c’è più nulla da ridere, neanche amaramente. La scena dell’iniziazione massonica, di per sé anche divertente, così come la preghiera che la magnifica massaia Shelley Winters offre a Dio con quel fiducioso piglio pagano-popolaresco dovuto all’ignoranza, sanno come di muffa, di stantio nel loro ritualizzare il carattere italiano, assuefatto da secoli di pratica a «cambiare perché nulla cambi». Il popolo italiano è secondo la visione di Cerami e Monicelli fascista nella propria essenza più profonda (esplicita la citazione «Molti nemici, molto onore», parola di uno che secondo Giovanni «c’aveva due palle così»): proprio in quanto incline alla furberia, costantemente alla ricerca della strada più comoda con la scusa degli affetti familiari, teso all’autorealizzazione per interposta persona e alla concezione borghese del lavoro “nobile”, proprio in quanto disposto all’utilizzo di certi mezzucci nella vita quotidiana («e che sarà mai?»), l’italiano ha più facile accesso alle componenti più violente di sé. La morte di Mario costituisce per Giovanni non tanto uno shock emotivo, uno sbandamento della propria vita intima, quanto una beffa che il destino ha organizzato alle sue spalle, a lui che vede in questo figlio un’ulteriore, egoistica realizzazione di sé (basti l’evidente, sprezzante paragone, magistralmente espresso da Alberto Sordi con il solo potere dello sguardo, che Giovanni compie fra il grigio Mario e il ragazzo che sale sul bus). E per questo sarà assai facile per lui restare di nuovo preda della medesima sete di vendetta. Un borghese piccolo piccolo può definirsi diviso in due metà ben distinte: nella prima il regista si dedica appunto a ritrarre il proprio popolo con disillusa ferocia, visibilmente consapevole della propria impotenza; mentre la seconda, a un primo sguardo ben distaccata dalla prima, vede semplicemente la naturalissima evoluzione di quello stesso popolo. Italiani, brava gente.