Il signore delle mosche
Quando si dice “un film invecchiato male”. La cautela – perché di questo sembra trattarsi – utilizzata da Peter Brook per portare sul grande schermo il romanzo disturbante del premio Nobel William Gerald Golding – che proprio dell’inquietudine che trasmetteva al lettore ha fatto la sua caratteristica più conosciuta – forse funzionò nel 1963 per accaparrarsi una fetta più ampia di pubblico, ma certo oggi sembra un freno che va a rovinare qualsivoglia buon intento. I tempi dilatati, il grande spazio dedicato a dialoghi sostanzialmente inutili e la paura di soffermarsi troppo sulle situazioni più impressionanti, fa di quel che poteva essere un capolavoro drammatico-horror una sorta di (fosse prodotto oggi) film-tv per famiglie; basterebbe censurare qualche “fanculo” e “ciccione di merda” di troppo. Peccato. L’incipit, dove i titoli di testa scorrono su fotografie che raccontano l’antefatto, fa ben sperare, musiche comprese – percussioni, rumori e piatti che preparano alla visione di un film complesso e particolare. Ma la mazzata arriva subito, nelle prime scene, quando per presentare i due protagonisti – Ralph e “Bombolo” – si impiegano svariati minuti, un lungo bagno in mare, e campi lunghi che mostrano l’isola deserta ma non trasmettono quel senso di spaesamento e solitudine a cui probabilmente servivano. Anzi, la visione del film fa venir voglia di andare in vacanza ai Caraibi.
L’inquietudine non arriva né all’inizio, né mai. Quando la situazione degenera – quando cioè nascono le ostilità all’interno del gruppo di ragazzi, dove la forza bruta prevale sulla ragione trasformando bravi giovanotti in carogne inferocite senza pietà – anziché sconcertarsi lo spettatore comincia a sbadigliare. I momenti clou sono completamente svuotati di tensione, vuoi per imperizia dei piccoli attori o vuoi per scelte stilistiche. Perché se da un lato la scarsa verve dei protagonisti riesce a smontare scene madri come quella della prima ricerca del mostro, accompagnata da dialoghi degni della recita delle scuole medie, dall’altra ci sono diverse omissioni rispetto al romanzo che vanno a limare, come già detto, tante cose forse considerate troppo disturbanti: lascia interdetti la scena dove Simone osserva la testa di maiale impalata, la quale però fa scena muta anziché parlare come nel testo di Golding dove il bambino, simbolo dell’innocenza, è in preda alle allucinazioni. E così la grande storia di questo gruppo di ragazzi curati ed educati che finito su un’isola deserta riscopre l’odio, la violenza, il tradimento senza remore e il divertimento degli atti brutali senza ragione – “L’uomo produce il male come le api producono il miele” scriveva Golding tanto per capirci – si appiattisce in una sorta di gita scolastica con diversi spaventosi contrattempi.